L’ingegnere di Como che, afflitto da depressione, ha deciso di porre fine ai suoi giorni rivolgendosi ad una delle vicine cliniche svizzere, non è certo il primo caso di suicidio assistito, praticato da persone in condizioni più che accettabili di salute e prive di patologie irreversibili. Non mancano esempi autorevoli e recenti di un simile tipo di scelta e, soprattutto, del modo pratico e — almeno in Svizzera — legale di realizzarla. In qualche caso, come in quello del magistrato Pietro d’Amico, si sono ipotizzate anche informazioni errate che certificavano un’irreversibilità patologica in realtà non dimostrata. Senza contare le pressioni interessate da parte di chi, per i motivi tra i più svariati, ha interesse che il soggetto intraprenda una simile strada, ragion per cui una simile decisione è ritenuta illegale in Italia.
Nulla di simile è sembrato emergere in questo caso. Chi ha deciso di andarsene era afflitto da una sindrome depressiva profonda. Ci sono molti indizi per ritenere che un tale tipo di decisione finisca per trovare sempre meno ostacoli e per essere quindi sempre più praticata: la depressione, questa “malattia della responsabilità” come la definisce Alain Ehrenberg, trova nella morte assistita una possibilità realistica di risoluzione.
Ciò che appare più inquietante è il carattere interamente soggettivo che una tale scelta finisce così per acquisire. In pratica, la decisione di porre fine ai propri giorni rivolgendosi ad un centro specializzato appare sempre più priva di ostacoli, soprattutto sul piano morale. Non è forse tra i diritti del soggetto — almeno così come vengono ostentati e condivisi nella società contemporanea — anche quello di porre fine alla propria esistenza terrena, una volta che questi la percepisca come inaccettabile? In una società del riconoscimento pieno e quindi della tutela delle libertà individuali, come poter contrastare la libera scelta di un soggetto adulto e consapevole di porre fine ai propri giorni, una volta che questi si sia convinto che la vita non solo non abbia nulla da offrirgli ma gli presenti anche dei risvolti che percepisce come insopportabili?
Un tale diritto — al di là del suo carattere mesto e mortificante — appare tanto più condivisibile per l’opinione pubblica quanto più il soggetto si concepisce e viene concepito senza appartenenze, né relazioni significative. Nemmeno per un attimo si ritiene infatti che questi debba qualcosa agli altri e che il suo gesto potrebbe ferire proprio quanti lo abbiano amato o lo amino ancora. È proprio la perdita di relazioni significative, il non saperle più intercettare né ovviamente valorizzare, che precipita la depressione di ciascuno in quel tunnel orribile a partire dal quale questi si separa dal mondo, e soprattutto da quanti sono significativi. Spiaggiato su quella che ritiene essere un’isola deserta nella quale si vede solo, questi finisce con il rinchiudersi in una fortezza senza ponti levatoi.
Non si può non osservare come un simile comportamento sarebbe stato impensabile nelle epoche passate: quando ciascuno si sentiva parte di una storia famigliare e quindi amministratore di una memoria da custodire e da trasmettere, responsabile di un nome e di una serie di beni, morali oltre che materiali, da sviluppare e da accrescere per poi lasciare ai propri figli. Custode di un giardino del quale non era il proprietario se non per il breve arco della propria esistenza terrena, ma del quale non di meno era responsabile. Una tale figura sociale sembra essere relegata oramai alle antologie letterarie ed alle rappresentazioni d’archivio.
Così la parabola individualista giunge al suo esito finale, all’ultima edizione disponibile. All’ennesimo rovescio della vita, una moltitudine intristita e fiaccata da un’esistenza della quale non coglie più il senso, persone che quindi si percepiscono sole o comunque senza speranza, si avvia verso il confine, verso una clinica ed una dolce morte. Ogni dramma è privato e certamente va rispettato. E’ certamente un nostro fratello che ci siamo persi, un amico che non siamo riusciti a trattenere, o che addirittura è stato convinto da una morale impietosa a non dover ricorrere a nessuno, a dover contare solo sulle proprie forze, e quando queste cedono, a decidere di uscire dal mondo pur di non arrendersi al fatto che tutti siamo il risultato di un bene che ci è stato donato gratuitamente e dal quale dipendiamo.
Non siamo forse dinanzi alla fine di un’autoreferenzialità del singolo vista e percepita come valore in sé? Un valore sempre più pesante da portare, sempre più distante da una realtà che ci insegna quanto siamo parte di un mondo che tiene a noi, di una comunità della quale facciamo parte, ed alla quale siamo cari.