Caro direttore,
un ragazzo di sedici anni è stato fermato all’uscita di scuola dalle forze dell’ordine per un normale controllo di routine. Scoperto in possesso di alcuni grammi di hashish, è stato condotto a casa per una perquisizione di rito alla presenza dei genitori. La perquisizione ha dato esito negativo, ma, mentre le autorità stavano parlando con i genitori, il ragazzo si è lanciato dalla finestra di casa suicidandosi. Fin qui la ricostruzione, i fatti. E mi si perdonerà se qualcosa non è esatto perché quello che si sa viene tutto dai media e non è detto che sia così preciso.
Quello che è certo è che questo episodio è avvenuto a Lavagna, in provincia di Genova, dove sono stato vice parroco per tre anni e dove i protagonisti di questa vicenda hanno per me volti e storie conosciuti. Per questo non mi trovo di fronte ad un normale “caso” di cronaca: perché vedo la rabbia e lo sgomento di chi era amico di questo ragazzo, ascolto le loro parole, ricevo le loro telefonate e non mi permetterei mai di squarciare il rispettoso silenzio che ciascuno deve al dolore di una famiglia e di un’intera comunità.
Ciò che noi possiamo dire, in un momento come questo, è quindi ben poco. Possiamo anzitutto arrenderci davanti al grande mistero della libertà umana che, mai come in questo momento, ci appare sovrana e indiscussa. Nessuno sa che cosa passasse per la testa di quel ragazzo, si possono fare ipotesi, ma nessuno può chiudere la questione a cuor leggero. La verità, che cade su questa storia come un macigno, è che lui ha scelto la morte, è che nella vita — in ogni vita — si può scegliere la morte. E davanti a questo noi non possiamo fare niente. Nulla possono le forze dell’ordine, la scuola, lo stato, la Chiesa: ciascuno di noi può scegliere di morire.
Eppure il dolore è grande. E’ grande perché — proprio nel momento in cui noi onoriamo la libertà e accettiamo che una persona possa perfino scegliere di morire — sentiamo, esattamente nello stesso istante, che la cosa più vera della vita non è morire, bensì vivere. Scegliamo la morte, ma siamo fatti per la vita. E questa certezza non riusciamo a togliercela da addosso con nessun ragionamento, nessuna sofisticata elucubrazione. Noi siamo qui per vivere e contempliamo questa morte, come ogni morte, come una cosa ingiusta, che tradisce la promessa che portiamo nel cuore, ossia che la nostra vita possa essere felice.
Una promessa, lo sappiamo bene, che può essere mille volte ferita dal male che facciamo e che gli altri ci fanno, da una storia difficile, dal considerare l’oscurità della fine come una via d’uscita. Eppure tutto questo non impedisce al nostro cuore di sussultare di fronte alla fioca luce di febbraio, dinnanzi alla persona che amiamo o alle cose che ci regalano dignità e bellezza. La vita è una “maledizione” che ci perseguita e il fatto di poter scegliere di morire non ne diminuisce né il fascino né il desiderio.
Allora, e qui forse veniamo al punto decisivo per tutti, perché continuare a vivere? Perché vivere? Perché non scegliere anche noi la morte? La risposta è semplice quanto disarmante: il tempo non è uno spazio vuoto, ma una terra in attesa, è una lunga e costante attesa. Il tempo non è consegnato al nulla, ma è attesa di qualcosa, di Qualcuno, che qualcosa accada, che Qualcuno venga. E questa attesa più siamo poveri, doloranti, sofferenti, più si fa urgente, si impone alla nostra attenzione. Mentre lavoriamo o ci lamentiamo, mentre siamo con le persone che amiamo o facciamo fatica, sboccia in noi il fiore di una domanda: “Mandaci o Padre Zeus il miracolo di un cambiamento” dicevano nell’antichità i poeti greci.
Di fronte al lutto di Lavagna, al silenzio che circonda una vita nel pieno delle sue forze e dei suoi sogni, contempliamo la libertà dell’uomo, il suo desiderio irriducibile di vivere, ma contempliamo ancora di più l’esigenza, da parte di ciascuno di noi, di non mollare, di continuare ad attendere, ad aspettare. Per vedere come va a finire, per incontrare un giorno quegli angeli che hanno scelto la morte solo perché il loro cuore desiderava ardentemente la vita. E quando li incontreremo il nostro abbraccio sarà lungo, infinito, pieno della commozione che sorge in ognuno di noi quando scopre che il proprio destino — qualunque scelta compia — non è morire, ma vivere per sempre.