Con la cosiddetta loi Leonetti «relativa ai diritti dei malati e al fine vita» il legislatore francese ha inteso impedire il ricorso a pratiche eutanasiche ed escludere al contempo ogni forma di accanimento terapeutico. La loi Leonetti è stata promulgata il 22 aprile 2005. Si tratta dunque di una legge ancora giovane, che ha appena compiuto l’ottavo anno di vita. Nondimeno i francesi sono già in attesa dell’imminente presentazione di una proposta di riforma.
L’ha annunciata proprio per questo mese di giugno il presidente Hollande, quando, il 18 dicembre scorso, gli è stato consegnato il rapporto intitolato Penser solidairement la fin de vie, elaborato da una Commissione di esperti, alla quale lo stesso Hollande aveva affidato il compito di valutare la possibilità di introdurre forme di «assistenza medicalizzata per concludere dignitosamente la vita». Sembra dunque che la legislazione francese in materia di fine vita sia già prossima alla riscrittura. E ciò benché, proprio nel rapporto commissionato da Hollande, si metta bene in chiaro come i contenuti innovativi della loi Leonetti siano ancora poco conosciuti dai cittadini e dagli operatori sanitari. E benché, nelle conclusioni di quello stesso documento, si sottolinei con forza «l’esigenza di applicare decisamente le leggi vigenti piuttosto che immaginarne sempre di nuove», «l’utopia di risolvere per legge la grande complessità delle questioni del fine vita» e «il rischio di superare le barriere di un divieto» con la depenalizzazione dell’aiuto al suicidio.
Frattanto, proprio in questi giorni, nell’attesa di conoscere i contenuti dell’iniziativa riformatrice annunciata da Hollande, l’opinione pubblica francese torna a dividersi intorno al caso di un uomo di 37 anni, Vincent Lambert, il quale, come si apprende dalla stampa, da più di quattro anni, a seguito di un grave incidente automobilistico, versa in uno stato inizialmente indicato come “vegetativo” e poi divenuto “di minima coscienza”. A quanto pare, infatti, già da più di due anni, Vincent risponde di nuovo a talune stimolazioni sensoriali. Nondimeno, dopo aver consultato sua moglie, i medici hanno deciso di non somministrargli più nutrizione e idratazione e hanno pure iniziato a dar corso a tale decisione.
I genitori e i fratelli di Vincent si sono tempestivamente opposti anche con opportune iniziative processuali. Il giudice competente ha quindi ordinato la ripresa immediata della somministrazione dei sostegni vitali e il trasferimento di Vincent in un’altra struttura ospedaliera. E ciò perché, in violazione delle norme vigenti, i medici che avevano in cura Vincent avevano deciso l’interruzione di nutrizione e idratazione senza aver consultato anche i suoi genitori e i suoi fratelli.
In effetti, nel Code de la santé publique, così come è stato novellato dalla loi Leonetti del 2005, si dice ora con chiarezza che, laddove il paziente sia «en phase avancée ou terminale d’une affection grave et incurable» e versi altresì in una condizione di incapacità, il medico può sempre decidere di limitare o di interrompere un trattamento considerato «inutile, disproportionné ou n’ayant d’autre objet que la seule prolongation artificielle de la vie» e di determinare così la morte del paziente, purché però assuma una decisione tanto grave – che dev’essere corredata da un’adeguata motivazione scritta – solo all’esito di un’apposita procedura di consultazione collegiale regolata dal codice deontologico e dopo aver ascoltato la personne de confiance del malato, ove designata, e la sua famiglia o, in difetto, uno dei suoi parenti, e avendo tenuto conto anche delle eventuali direttive anticipate predisposte dallo stesso paziente (sempre che non si tratti di direttive risalenti a più di tre mesi prima dell’inizio della situazione di incoscienza).
Nel caso di Vincent la scelta dei medici di considerare anche un paziente in stato di minima coscienza come un soggetto «in fase avanzata o terminale di una patologia grave i incurabile » appare certamente discutibile. E non meno discutibile è pure l’idea degli stessi medici secondo cui anche la nutrizione e l’idratazione di un tale paziente sarebbero «un trattamento inutile, non proporzionato e non avente altro fine al di là del prolungamento artificiale della vita».
Il legislatore francese del 2005 ha scelto nondimeno di lasciare alla discrezionalità tecnica dei medici la concreta determinazione di concetti come “fase terminale”, “malattia grave e incurabile”, “trattamento”, ecc., ritenendo che, anche nelle situazioni più perplesse, il riferimento ai principi della deontologia medica – e al relativo apparato sanzionatorio – e il necessario ricorso a una procedura di consultazione collegiale, destinata a coinvolgere anche la famiglia del paziente, rappresentino un presidio sufficiente di fronte al rischio di valutazioni arbitrarie.
D’altra parte, almeno in linea di principio, l’impiego di una simile tecnica legislativa nella regolazione delle questioni di fine vita (e, più in generale, delle più diverse questioni del cd. biodiritto), e cioè la previsione di un’integrazione del sistema delle fonti attraverso un’istanza intermedia di valutazione “tecnica”, che si collochi, per così dire, a metà strada tra il caso singolo e la generalità della legge, appare a molti come la soluzione più opportuna. E molto probabilmente lo è. Ciò non vuol dire però che il rischio di decisioni mediche inadeguate o senz’altro scorrette anche sotto un profilo deontologico sia per ciò solo scongiurato. Del resto, almeno a una prima considerazione superficiale, proprio la decisione presa dai medici nel caso di Vincent appare per più versi censurabile.
Ma non è questo il profilo della vicenda in questione che si vuole qui evidenziare. Come già si è detto, del resto, non è per una censura della valutazione dei medici che, nel caso di Vincent, il giudice francese ha ora ordinato di riprendere immediatamente la somministrazione degli essenziali sostegni vitali. Si è riscontrato piuttosto un vizio nell’applicazione della procedura prevista dalla legge al fine di interrompere un trattamento sanitario considerato inutile e sproporzionato e di dar corso così alla morte del paziente.
Infatti, secondo quanto previsto dalla loi Leonetti, i medici avrebbero dovuto consultare la “famiglia” di Vincent. Hanno raccolto invece solo il parere di sua moglie, mentre non hanno dato ascolto né ai suoi genitori né ai suoi fratelli, tutti portatori di una volontà contraria all’interruzione della nutrizione e dell’idratazione. La decisione dei medici non ha potuto così tener conto di questo diverso punto di vista. Ed è per questo che il giudice ha ritenuto che non potesse aver corso. Ora, però, anche attraverso la stampa, la moglie di Vincent denuncia la “violenza inaudita” della situazione che si è venuta così a determinare: «che il tribunale abbia preso una simile decisione senza neppure ascoltarmi – si legge in un’intervista rilasciata al quotidiano Le Monde dalla moglie di Vincent – è una cosa che mi ha davvero sconvolta».
E prosegue: «È stato permesso solo a una parte di esprimersi. Sono stata esclusa come se non facessi parte della famiglia di mio marito. Ma noi siamo sposati e abbiamo un figlio. Io rappresento sa première famille, quella che lui si è creato, quella che lui ha scelto». La moglie di Vincent rivendica insomma la prevalenza della propria volontà su quella di tutt’altro segno dei genitori e dei fratelli del marito. Sostiene di essere lei – e non già genitori e fratelli di Vincent – a dover rappresentare quella “famiglia” del paziente terminale e in condizione di incapacità, che il legislatore del 2005 ha imposto ai medici di consultare prima di prendere una decisione definitiva sull’interruzione di un trattamento sanitario considerato inutile e sproporzionato, dando corso così alla morte del paziente. Non vi è alcun dubbio, del resto, che, soprattutto nella sensibilità occidentale, la famiglia “parentale” abbia ormai perso di rilievo a tutto vantaggio della famiglia “nucleare”. D’altra parte, anche su un piano più strettamente normativo, è per lo più la relazione familiare che deriva dal matrimonio, e cioè da una scelta libera e consapevole dell’individuo, a costituire il principale punto di riferimento degli effetti giuridici di natura più strettamente personale. Com’è possibile allora che, nel caso di specie, la volontà dei genitori e dei fratelli di Vincent abbia finito per prevalere su quella di sua moglie?
A partire da certe considerazioni alcuni organi di informazione tendono manifestamente a montare un nuovo caso. La contraddizione che viene portata all’attenzione dell’opinione pubblica è tuttavia solo apparente. A ben vedere, infatti, essa discende da una considerazione della vicenda in un’ottica volontaristica del tutto inappropriata e totalmente deformante. Nel caso di specie, infatti, non si tratta di chiarire quale tra due contrapposte volontà – quella della moglie di Vincent o quella dei suoi genitori e dei suoi fratelli – debba prevalere sull’altra. Un’idea di questo tipo è del tutto estranea alla logica di una disciplina che impone al medico di sentire anche la famiglia del paziente incapace prima di assumere la propria decisione definitiva in ordine all’interruzione del trattamento, considerato inutile e sproporzionato, che lo mantiene in vita. E ciò perché la logica di una disciplina di questo tipo – e forse, più in generale, la logica dell’intero intervento del legislatore francese del 2005 – non è certo quella puramente contrattuale per cui il rapporto terapeutico si riduce a un qualsiasi rapporto di prestazione, in cui il medico è tenuto a soddisfare le richieste di trattamento del paziente, con la conseguenza che, ove quest’ultimo si trovi in condizione di incapacità e in difetto di direttive anticipate dello stesso paziente, bisogna individuare un altro soggetto determinato, il quale, in nome e per conto di lui, dia al medico le necessarie direttive.
Del resto, se la logica di fondo della loi Leonetti fosse davvero una logica di tipo contrattuale, il legislatore non avrebbe certo detto che il medico deve “consultare” le eventuali direttive anticipate del paziente, ma a queste ultime avrebbe piuttosto riconosciuto un carattere vincolante. Né avrebbe detto che il medico deve semplicemente “consultare” la famiglia del paziente, ma avrebbe piuttosto individuato il soggetto che, al suo interno, deve dare al medico le direttive vincolanti in nome e per conto del congiunto incapace. D’altra parte, nella logica contrattuale del rapporto di prestazione, la stessa necessità di una procedura di consultazione collegiale diviene difficilmente comprensibile.
La logica di fondo di norme come quelle che vengono qui in considerazione non è dunque una logica volontaristica di tipo contrattuale, ma è piuttosto quella di un’alleanza per la vita e contro la morte, di un dialogo tra il medico e il paziente – ovvero, in caso di incapacità di quest’ultimo, tra il medico e i suoi più stretti congiunti, anche laddove vi siano delle direttive anticipate – finalizzato a una migliore definizione delle concrete modalità di attuazione di un rapporto di cura che si conformi il più possibile ai valori della dignità della persona umana.
È chiaro allora che, ove ci si ponga correttamente in un’ottica di questo tipo, e cioè nell’ottica dell’alleanza terapeutica, non ha più alcun senso chiedersi se, in caso di visioni contrastanti nella cerchia dei più stretti congiunti del malato, debba prevalere la volontà di questo o di quello. Non si tratta infatti di individuare una volontà che, sostituendosi a quella del paziente incapace, fornisca al medico le necessarie direttive di trattamento. Si tratta piuttosto di raccogliere, in un dialogo costante tra medico, paziente e/o i suoi familiari, tutti gli elementi che possono servire a una migliore attuazione di un rapporto di cura, che, in quanto tale, deve rimanere pur sempre sottratto alla libera disponibilità delle sue parti.
Si comprende a questo punto come anche opinioni diverse e contrastanti tra i familiari del paziente possano benissimo coesistere. Nessuna di queste opinioni è infatti destinata a prevalere sulle altre, giacché il rapporto terapeutico non è mai attuazione della volontà di questo o di quello, ma è sempre per la cura del paziente. Nel caso di Vincent, quindi, la decisione del giudice non ha affatto mortificato il ruolo della moglie, facendo prevalere sulla sua volontà la diversa volontà dei genitori e dei fratelli. Il giudice ha dovuto piuttosto prendere atto che, nel dialogo tra i medici e i più stretti congiunti di Vincent, la voce dei suoi genitori e dei suoi fratelli è rimasta del tutto inascoltata ed è venuto così a mancare un elemento essenziale perché quel dialogo potesse dar corpo a un’autentica alleanza di cura tra medici e familiari.
La decisione del giudice, allora, non fa altro che rimettere in moto quel dialogo, che deve ora riprendere in maniera corretta, senza che nessuno dei familiari di Vincent possa pretendere di imporre agli altri la propria volontà, chiedendo ai medici, in nome e per conto di Vincent, di fare qualcosa che non sia a favore della vita del proprio congiunto, ma anche senza che neppure i medici, da parte loro, possano pensare di prendere delle decisioni contro la vita di Vincent, contravvenendo così ai propri doveri deontologici. La professione del medico, infatti, per sua natura, è sempre per la cura del paziente, e dunque per la sua vita.