La cultura giuridica non è una regione autonoma della cultura, ma ne è figlia e di essa respira e si nutre. Il giudizio sulle legittimità delle azioni delle persone fisiche e giuridiche e dello Stato e sulle loro responsabilità è una declinazione particolare di quell’esercizio della ragione, del realismo e della moralità con il quale ognuno di noi affronta quotidianamente le circostanze della vita individuale e sociale. In ogni epoca, nel diritto si è riflessa la civiltà (o la barbarie) di un popolo, la concezione della vita che lo permea, il patrimonio di idee e di opere che ha ricevuto, accolto, sviluppato o rigettato. In una parola: la sua cultura.
Le leggi tendono inesorabilmente ad assorbire, come per osmosi, la cultura dominante o quella che aspira ed essere egemone (sia essa un’egemonia culturale democratica o totalitaria). La forma della ragione – intesa come apertura alla realtà senza censure, secondo l’orizzonte di tutti i suoi fattori costitutivi, nessuno escluso; oppure come calcolo, misura, ponderazione di alcuni di essi – e l’esercizio della ragionevolezza non sono estranee al processo legislativo e a quello giurisprudenziale.
Il grado di realismo – il credito dato ad un pre-giudizio che è nella nostra mente rispetto all’indagine appassionata e tenace della realtà, secondo un metodo dettato dall’oggetto stesso in considerazione – gioca un ruolo decisivo nella stesura, nell’interpretazione e nell’applicazione delle leggi. Il livello di moralità – l’autentica libertà della coscienza di cercare la verità appassionatamente e di amarla più di quanto siamo attaccati all’idea che di essa ci siamo costruiti; o, al contrario, una concezione di “neutralità” del giudizio che vorrebbe il giudice completamente indifferente rispetto alla realtà da giudicare, come in atarassia – incide nella risoluzione delle questioni giuridiche non meno profondamente che in altri ambiti della conoscenza e dell’azione dell’uomo.
Chi coltiva l’idea opposta – confidando in una sorta di “osmosi inversa” che vedrebbe la cultura giuridica permeare e plasmare la cultura della persona e del popolo – ha buon gioco nel rifarsi alla storia occidentale che, almeno nei paesi latini, ha visto fiorire la civiltà ed edificare la sua cultura non senza il contributo determinante del diritto romano e di quello della Chiesa. Ma dimentica che alla sorgente di entrambe (ma in modo preminente nel secondo caso, quello del cristianesimo) sta l’educazione della persona, l’introduzione del cittadino giovane e adulto al realismo, alla ragionevolezza ed alla moralità. Solo l’educazione è generatrice di cultura, e la cultura è la madre del diritto. Negli ultimi decenni l’introduzione in Occidente di alcune leggi sulla famiglia e sulla vita umana è la spia di un profondo mutamento culturale in atto nella società, dal quale emerge un’antropologia nuova, uno sguardo sull’uomo in una prospettiva progressivamente divergente da quella sviluppata sulle radici classiche ed ebraico-cristiane dell’Europa. Un segnale, quello legislativo, da non sottovalutare.
Anche la lunga vicenda italiana dell’approvazione della legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita (PMA), dei tentativi progressivi di un suo smantellamento attraverso le sentenze su singoli casi portati in giudizio e, infine, del recente pronunciamento della Corte costituzionale sull’illegittimità del comma dell’art. 4 che si riferisce alle pratiche di fecondazione eterologa, riflette una mutata concezione del realismo e della ragionevolezza giuridica (a quest’ultima si fa appello più volte nel testo della Consulta, senza però un’esplicitazione del concetto di essa che viene assunto), nonché dell’idea di moralità dell’atto umano, in questo caso di quello procreativo. Dando atto ai giudici della Corte costituzionale di un’attenta e ponderata ricognizione della questione e di un equilibrio che è sinora mancato in molte delle sentenze in materia emesse in gradi di giudizio inferiori, non si possono non rilevare alcune criticità che rendono deboli le ragioni addotte per giustificare l’ordinanza. Prendiamo in considerazione alcuni argomenti.
1. Argomento dello status quo ante legem. I giudici costituzionali si appellano al fatto che «il divieto in esame [quello della PMA eterologa; nda] non costituisce, peraltro, il frutto di una scelta consolidata nel tempo», in quanto è stato introdotto nel nostro ordinamento giuridico proprio dal censurato art. 3, comma 3 della legge 40/2004. A documentazione di questo, vengono citate tre circolari (1985, 1987 e 1992) e un’ordinanza (1997) del ministero della Salute che avrebbero consentito a 75 centri privati (dati 1997) di praticare lecitamente la PMA eterologa in Italia.
In realtà, prima della 40/2004 non vi era altra legge che disciplinava la materia. Se è realistico affermare che la fecondazione eterologa fosse praticata nel nostro Paese prima dell’entrata in vigore della legge, le direttive ministeriali citate non possono però costituire il recepimento normativo di una consuetudo contra legem in quanto si sono limitate – per ragioni di tutela della salute, di divieto di commercializzazione di cellule del corpo umano e di amministrazione delle strutture sanitarie pubbliche – a colmare gli aspetti più urgenti del vuoto legislativo.
Tutt’al più si potrebbe ravvisare una consuetudo praeter legem, cioè quella consuetudine che regola un ambito non ancora disciplinato dalla legge, ma che non trova più alcuna giustificazione una volta che la materia sia stata normata per legge. Al di là di queste sottigliezze giuridiche resta il fatto che anche gli oppositori giuridici e politici all’attuale legge 40/2004, nei lunghi anni del dibattito che ha portato alla sua approvazione, sottolineavano la necessità di una legge che affrontasse in forma organica la delicata questione della PMA, ponendo così fine ad abusi e disordini che gettavano discredito su chi la praticava in modo professionalmente corretto. E questo a motivo di una carenza legislativa pur in presenza delle citate direttive ministeriali.
Del resto, la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 45 del 2005, aveva ribadito che la 40/2004 costituisce «la prima legislazione organica relativa ad un delicato settore […] che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un minimo livello di tutela legislativa».
Anche il richiamo, fatto dalla Consulta, ad un’assenza di «obblighi derivanti da atti internazionali» in merito al divieto di PMA eterologa, trascura un fattore importante della realtà del diritto internazionale: per «le questioni [che] toccano temi eticamente sensibili», i protocolli europei contemplano la possibilità che il legislatore di ogni stato membro intervenga in materia secondo criteri autonomi, nel rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini.
2. Argomento della «fondamentale e generale libertà» della coppia (autodeterminazione). Il centro di gravità antropologico delle argomentazioni della Corte ruota attorno all’affermazione che «la scelta» di una coppia «di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminazione […] riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 della Costituzione, poiché concerne la sfera privata e familiare».
E’ vero che la Consulta precisa successivamente che questo principio costituzionale «non implica che [tale] libertà in esame possa esplicarsi senza limiti». Tuttavia, questi limiti, «pur meritevoli di attenzione in un ambito così delicato, non possono consistere in un divieto assoluto, […] a meno che lo stesso non sia l’unico mezzo per tutelare altri interessi di rango costituzionale». I giudici hanno ben presente che «l’unico interesse che si contrappone ai predetti beni costituzionali è […] quello delle persona nata dalla PMA di tipo eterologo». Tuttavia, essi non ritengono che questa modalità procreativa – che ricorre a gameti estranei alla coppia di aspiranti genitori – risulti lesiva dell’interesse del figlio, rigettando così la tesi dell’Avvocatura generale dello Stato, secondo la quale la lesione è duplice: quella causata dal rischio psicologico correlato alla presenza di figure genitoriali molteplici e potenzialmente conflittuali tra di loro, e quella derivante dalla violazione del diritto a conoscere la propria identità genetica. Su questo punto torneremo successivamente, trattando della (presunta) assimilabilità della PMA eterologa all’adozione.
Il concetto di «fondamentale e generale libertà di autodeterminazione» in riferimento alla generazione di un figlio accarezza l’idea che esso/a sia un “bene disponibile” nei confronti dell’elezione della coppia a diventare genitori, riducendo così la persona del figlio da “soggetto” ad “oggetto”. Ed è proprio l’assenza di considerazione della qualità di soggetto del concepito attraverso la PMA – in contrasto con quanto affermato dall’art. 1 comma 1 della legge 40/2004, che riconosce il concepito tra i «soggetti coinvolti» (un comma sul quale non sono stati sinora sollevati dubbi di incostituzionalità) – a privare di autentica ragionevolezza e moralità l’atto della fecondazione eterologa, promuovendo il principio dell’autodeterminazione a prescindere dall’oggetto (nella specie, un soggetto) che la qualifica, verso il quale è chiamata ad orientarsi la libertà e la volontà buona dei coniugi di diventare genitori.
La radice di questa posizione culturale è da rinvenire nella considerazione della PMA prevalentemente in ottica biotecnologica, di manipolazione dei gameti e dell’embrione a prescindere dal loro intrinseco significato e valore antropologico in ordine alla genealogia della persona. Ciò porta alla separazione di diritto di quello che, di fatto, è inscindibile nella realtà: la determinazione di procreare dalla modalità con cui la procreazione avviene e dalla costituzione del generato. Una concezione dualistica della PMA che non tiene conto di tutti i fattori della sua complessa realtà, resa ancor più intricata dal ricorso a gameti estranei alla coppia.
3. PMA eterologa ed adozione considerate come un’unica fattispecie giuridica. In almeno due punti del testo la Consulta richiama le norme che regolano l’istituto dell’adozione in favore dell’ammissibilità della PMA eterologa. Secondo i giudici, «il progetto di formazione di una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli, anche indipendentemente dal dato genetico [discordanza tra paternità/maternità genetica, affettiva e legale; nda], è favorevolmente considerata dall’ordinamento giuridico». Accortisi però di una non irrilevante differenza tra l’adozione di un bambino già nato e la generazione ad hoc di un figlio attraverso la PMA, la Corte si affretta a precisare che «quest’ultimo [l’istituto dell’adozione; nda] mira prevalentemente a garantire una famiglia ai minori», come affermato dalla stessa Corte nella sentenza n. 11 del 1981. Sorprendentemente, però, anziché concludere con l’opportunità di considerare diversamente la fattispecie della lesione preordinata del diritto del figlio ad una paternità e maternità univoca e certa, presente nella PMA eterologa, da quella del rimedio (peraltro sempre un tentativo dalle conseguenze psicologiche e sociali incerte) ad un vulnus della persona del bambino avvenuto antecedentemente e indipendentemente dall’atto dell’adozione, per i giudici è «evidente che il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa».
Un’affermazione, questa, in parte scontata (come non ammettere che i rapporti, anche giuridicamente rilevanti, che si creano tra i membri di una famiglia non siano vincolati alla sussistenza di una consanguineità?) e in parte oscura, per quanto concerne le ragioni che essa aggiungerebbe all’argomentazione a favore della PMA eterologa. Di certo, innumerevoli sono i casi in cui la legislazione, contemplando la tutela di un diritto fondamentale della persona (la cui violazione irreversibile non può essere ammessa), distingue tra il diritto/dovere di cercare di porre rimedio (parziale, per come possibile) a ciò che consegue dalla mancata realizzazione di questo diritto (per ragioni dipendenti o indipendenti dalla volontà di altri soggetti), dall’intenzionale volontà di compiere un’azione che di sua natura implica la mancata tutela di questo diritto fondamentale. L’adozione si configura nella prima fattispecie, la PMA eterologa nella seconda.
4. Argomento della salute fisica e psichica della coppia infertile. La Consulta ha richiamato il dovere dei medici e della legge di considerare attentamente le esigenze della salute fisica e psichica dei coniugi che non riesco a realizzare un progetto genitoriale. E’ ben noto quanto questo argomento abbia giocato nell’interpretazione e nell’applicazione estensiva delle condizioni in cui sussiste il diritto di ricorso all’aborto previste dalla legge 194/1978 e non occorre qui ricordare l’ambiguità cui è esposto il concetto di “salute psichica” in riferimento alla mancata realizzazione di un desiderio, di un’aspettativa pur di elevato profilo antropologico e psicologico come è la maternità e la paternità, oppure per quanto concerne il timore di una malattia o disabilità che possa colpire un figlio. Possiamo però chiederci se corrisponda alla realtà e risponda ad una adeguata ragione giuridica non prendere in pari considerazione i rischi per la “salute psichica” del concepito da PMA eterologa. La questione affrontata dall’art. 1 comma 1 della legge 40/2004 si rivela ancora una volta fondamentale: quali sono i soggetti coinvolti nella PMA e i diritti da assicurare loro. Su questo punto la sentenza della Corte Costituzionale apre nuovi scenari giuridici che il legislatore dovrà affrontare e cercare di risolvere se si vuole salvare di fatto, e non solo di principio, il dettato del primo e fondamentale articolo della legge.