Sono passati 30 anni dalla scomparsa di Federico Caffé, l’economista nativo di Pescara, che il 15 aprile del 1987 scomparve misteriosiamente dalla sua casa romana di via Cadlolo, nel quartiere di Monte Mario. E per quanto il tempo sia trascorso inesorabile, per quanto a cercarlo furono in tanti, tra forze dell’ordine, amici e allievi, ancora oggi nessuno sa che fine fece il riformista che ebbe il merito di diffondere in Italia le teorie di Keynes in un periodo in cui ad andare in voga era il liberismo di Reagan e Thatcher. Federico Caffé, preciso come sempre, aveva lasciato tutto in ordine sul comò di casa: occhiali, portafoglio, documenti. Forse, però, all’appello mancava un libro: La scomparsa di Majorana, di Leonardo Sciascia. Un caso che gli assomiglia spaventosamente: perché allo stesso modo Federico Caffé è riuscito a lasciarsi alle spalle tutto il mondo, la sua vita precedente, senza lasciare tracce di sé. Una vita, che però non era da tempo più la stessa. Da quando aveva dovuto lasciare l’insegnamento universitario per sopraggiunti limiti d’età, Caffé aveva conosciuto il taedium vitae. La noia di vivere, la depressione, aveva raggiunto un uomo che del suo lavoro aveva fatto una ragione di vita. E per questo, credendo di essere diventato inutile alla società che aveva contribuito a formare (tra i suoi allievi vi sono tra gli altri Mario Draghi e Ignazio Visco, ndr), come ricorda Ermanno Rea ne L’Ultima lezione, Federico Caffé decise probabilmente di uscire di scena, di salutare tutti senza salutare, di farsi da parte, come già elegantemente aveva fatto liberando in un amen il suo ufficio al proprio successore della facoltà di Politica Economica. Uno dei suoi allievi più legati, Bruno Amoroso, autore de “La stanza rossa”, prima di morire ad una giornalista de Il Corriere sussurrò:”Non ti posso dire nulla su Federico Caffè, questo reato non è ancora prescritto”. Ma a richiesta di approfondimenti rispose:”Non c’è niente da sapere su Federico Caffè. Se ne andato via da Roma e ha passato il resto della sua vita nella stanza rossa”. Forse è davvero così, forse Federico Caffé era così convinto che “uomini del mio genere o contano molto oppure non contano niente”, che davvero decise di chiudersi alle spalle le porte di casa per dire addio a quel Federico Caffé e diventare un altro uomo, o semplicemente non essere. A distanza di 30 anni il quesito resta: ci vorrebbe un professore sapiente come lui, per darci la risposta.