Come ci si poteva aspettare, in seguito alla pronuncia della Corte dei diritti dell’uomo Godelli vs Italia del 25 settembre 2012, dinanzi alla nostra Corte costituzionale è stata sollevata la questione di costituzionalità dell’art. 28 comma 7 della legge 184/1983, che disciplina il cosiddetto parto anonimo.
In sintesi, il Tribunale per i minorenni di Catanzaro, che ha investito la Corte della questione, sulla scorta della sentenza della Corte europea – che ricordiamo, secondo il nostro ordinamento, è fonte di obblighi per il nostro paese, trattandosi di decisione attuativa di un trattato internazionale di cui l’Italia è contraente – ritiene che il permettere l’anonimato assoluto e irreversibile per le donne che non vogliono riconoscere il proprio bambino al momento del parto costituisca una violazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini.
Secondo l’impianto della sentenza della Corte europea, fatto proprio dai giudici remittenti, l’impossibilità di conoscere le proprie origini per l’adottato incide sul diritto fondamentale all’identità personale, dal momento che la conoscenza della propria famiglia biologica e delle proprie radici costituisce un elemento cruciale per la costruzione culturale, nazionale e sociale della persona umana.
Il diritto del figlio all’identità personale, secondo la Corte europea, sarebbe stato violato dalla scelta dello Stato italiano di accordare tutela assoluta e preminente al diritto della madre a conservare l’anonimato al momento del parto. La Corte europea, difatti, ha condannato l’Italia perché nel bilanciamento tra i due diritti avrebbe ecceduto nella protezione dell’interesse della madre, sacrificando integralmente quello del figlio.
Per la verità la Corte costituzionale italiana, prima della pronuncia della Corte europea, nel 2005 era già stata investita del vaglio di costituzionalità della medesima norma, formulandone un giudizio positivo in considerazione della sua finalità. Scopo della norma, secondo la Corte, è tutelare la gestante che in situazioni di difficoltà abbia deciso di non tenere con sé il bambino, offrendole la possibilità di partorire in una struttura sanitaria adeguata, in modo che il parto avvenga nella situazione più tutelante possibile, sia per la madre che per il figlio, e dall’altra parte distogliere la donna da quelle la che Corte indica, un po’ cripticamente, come “decisioni irreparabili, ben più gravi per il figlio stesso”.
Tali possibilità – a giudizio della Corte – potrebbero essere minate se la donna potesse, in un futuro imprecisato e su richiesta di un figlio adulto e mai conosciuto, essere interpellata per revocare o modificare la dichiarazione di volontà di rimanere anonima data all’atto del parto.
Un aspetto rilevante di tale questione in concreto parrebbe essere quindi semplice e di facile comprensione: purtroppo ancora oggi talora i nostri telegiornali riportano la notizia di madri che, dopo aver partorito in condizioni precarie, prive di assistenza medica, abbandonano poi i propri figli nei cassonetti, nei bagni pubblici o ai bordi delle strade, con esito talvolta letale per la vita stessa dei neonati; e ciò nonostante la possibilità di partorire in anonimato assicurata in Italia, generalmente nota e pubblicizzata.
Il cosiddetto “parto anonimo” intende evidentemente prevenire tali fenomeni. Lo stesso vale per quelle madri che, pur in condizioni di difficoltà, hanno la possibilità di non ricorrere all’interruzione di gravidanza, donando ai propri figli per lo meno la vita biologica. Sembrerebbe pertanto ovvio intravvedere sullo sfondo dell’istituto il giudizio per cui il figlio, prima di aver diritto a conoscere le proprie origini, dovrebbe per lo meno avere la possibilità di nascere, condizione questa che l’assoluta segretezza al parto assicurata dall’Italia intende facilitare.
Eppure, stranamente, tale argomentazione, pur adombrata, non viene adeguatamente esplicitata né della Corte costituzionale né della Corte europea (fatta eccezione per il giudice dissenziente Andras Sajò), quasi fosse un tabù parlare di tutela della vita del nascituro, con la conseguenza che nel caso di quest’ultima la scelta del legislatore italiano finisce per offrire il fianco ad un giudizio di irragionevolezza.
Sotto altro profilo, poi, la condanna comminata all’Italia per aver privilegiato l’interesse di una sola parte – la madre – nel bilanciamento con l’interesse del figlio a “conoscere le proprie origini” e con quello di eventuali fratelli o del padre che, in futuro, non potranno essere rintracciati per via della decisione della sola donna, risulta un po’ paradossale. Infatti vi è un altro caso – a tutti noto – in cui viene accordata preminente e assoluta tutela della donna a fronte del sacrificato diritto del figlio e del padre: si tratta della cosiddetta interruzione volontaria di gravidanza.
Per tutte le leggi statali dei paesi europei che permettono l’interruzione volontaria della gravidanza, mai censurati dalla Corte Edu, la decisione sull’eventuale aborto è rimessa alla sola donna, senza alcuna possibilità di interferenza da parte di interessi portati da soggetti terzi e con il sacrificio assoluto dell’interesse di un soggetto coinvolto, il figlio, destinato a perdere il bene primario che è la vita.
In senso costruttivo, lasciando volentieri alla Corte costituzionale il ben difficile compito di rendere compatibili leggi dello Stato con gli obblighi internazionali costituzionalmente protetti, giova ricordare che in un caso analogo a quello dell’Italia – Odivierè contro Francia, deciso il 13.2.2003 – la Francia ha evitato la condanna della Corte Edu istituendo, nelle more del giudizio, con la legge n. 93/2003, un organismo ad hoc, ossia il Consiglio nazionale per l’accesso alle origini personali, con facoltà di disporre la rimozione del segreto circa l’identità della madre o del padre naturale, comunicando all’eventuale interessato i nominativi dei propri genitori. Così facendo, la Francia, stando alla Corte Edu, ha previsto un giusto contemperamento tra l’interesse della madre all’anonimato e quello dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini.
Fermo restando, come già riconosciuto dalla Corte costituzionale del 2005, che a tutela della salute della madre e del bambino non pare opportuno che il segreto al parto possa essere rivisto in un futuro imprecisato ad istanza di soggetti terzi (quale l’adottato), a costo di penalizzare l’intero istituto e la fruibilità dello stesso, l’Italia, possibilmente anche prima di una nuova pronuncia della Corte costituzionale, potrebbe viceversa adottare, sul modello francese, un diverso sistema di protezione dei dati sensibili. A tale elenco potrebbero rivolgersi le madri intenzionate a rivedere la propria volontà di non essere nominate all’atto del parto, rendendo quindi il segreto reversibile, a vantaggio dei figli che intendessero conoscere le proprie origini.