Riflessioni sul dopo. “Dopo. Una parola che nella vita pronunciamo migliaia di volte, di solito per posticipare un problema. ‘Ti richiamo dopo’ è la frase più usata che la contiene. Ma ‘c’è un dopo?’ è anche la domanda fondamentale che ci poniamo senza una possibile risposta o, come nel mio caso, non ci poniamo affatto. C’è un dopo? La risposta è sì. C’è sempre un dopo. Sul dopo ormai so tutto, è l’unica vera soddisfazione che si ha morendo prima dei propri amici. E’ come leggere di straforo le soluzioni nelle ultime pagine della ‘Settimana Enigmistica’. Il dopo non è male. Ma godetevi l’adesso che è meglio”.
Queste righe alla fine di “Cento giorni di felicità” di Fausto Brizzi, mi hanno accompagnato durante le vacanze di Natale e si associavano curiosamente a un testo completamente diverso, vale a dire “Life”, l’autobiografia di Keith Richards che si snoda tra i suoi eccessi, la sua indomita energia e la musica. Anche in questo caso, pur in un contesto differente, di vita vissuta, invece che di romanzo, emerge con forza il tema dell’adesso, che si contrappone al dopo di cui parlavamo poco fa. “Posso riposare – dice Keith Richards – sui miei allori. Ho creato abbastanza casini nella mia vita e ci convivrò e vedrò come qualcun altro li gestisce: Non posso andare in pensione finché non schiatto…Sono qui per dire qualcosa e per toccare le altre persone, a volte con un grido di disperazione: ‘Sai come ci si sente'”. Il tema della vita e della morte. Del come affrontarle. Del come vivere l’una e l’altra.
La cosa singolare è che la storia di Keith Richards, nella sua esagerata vitalità, è un continuo correre sul filo, sfidando la morte. Con la droga, gli incidenti in auto, le cadute con trauma cranico che “miracolosamente” si risolvono sempre in positivo ed esaltano la vita, quasi inaspettatamente. Mentre la vicenda di Lucio, il protagonista del romanzo di Brizzi, è di straordinaria normalità, nel senso che rappresenta l’esserci di un uomo qualsiasi e quindi di ciascuno di noi potenzialmente, e trova un suo senso solo nella morte, anche se Lucio, a differenza di Keith, non fa nulla per sfidarla. “Questa è la storia – racconta Lucio all’inizio – di come ho vissuto gli ultimi cento giorni della mia permanenza sul pianeta terra in compagnia dell’amico Fritz (il cancro, ndr). E di come, contro ogni previsione e ogni logica, siano stati i giorni più felici della mia vita”. Queste due letture, così differenti eppure stranamente sintoniche si sono poi, negli stessi giorni, unite ad un fatto di cronaca. Il drammatico incidente di Michael Schumacher sulla neve.
Mi ha colpito, come nel caso delle letture, il contrasto. Quello di un campione che ha sfidato la morte per anni correndo in Formula 1 a oltre 300 chilometri allora, uscendone praticamente illeso e che ora si trova a lottare con lei, per una “semplice” sciata con il figlio, in circostanze non ancora certe al cento per cento, ma di sicuro meno estreme di quelle affrontate per anni sui circuiti di tutto il mondo. Al fondo di tutto resta il mistero della nostra esistenza. Delle sue contraddizioni. Delle strade incomprensibili che il percorso di ognuno di noi deve percorrere. E mi sembra di poter dire che il grande affetto che la gente ha dimostrato per Schumacher è in parte motivato dalla stima per il campione che ha fatto la storia della Ferrari, ma forse, ed è questa la lettura che vorrei proporre, è perché in questo momento Michael è più vicino a Lucio che a Keith Richards. E’ più simile ad ognuno di noi. Marito, papà, amico. Non più leggenda ma uomo. Con la sua grandezza e fragilità. Non sappiamo cosa verrà dopo. Per adesso, forza Michael!