Caro direttore,
all’ospedale di Jesi non hanno un ginecologo che pratichi le Ivg (interruzioni volontarie di gravidanza), perché i dieci dipendenti sono tutti obiettori di coscienza, così, secondo quel che ha riportato il Corriere, si chiama un medico “esterno” che rimedi allo scandalo, alla violazione del diritto di abortire. Secondo la legge.
Non è certo la prima volta che accade, non capisco perché ci si debba stupire della percentuale così alta di medici obiettori. Come rimedio certuni arrivano a mettere in dubbio la facoltà di poter obiettare, di rifiutarsi di praticare aborti, un po’ come sta accadendo negli Stati Uniti in cui per legge anche le cliniche cattoliche dovrebbero garantire tale diritto. Insomma, per osservare la legge, annullo la libertà (di coscienza).
In fondo poi perché tale libertà? Non potrebbe essere la scusa per liberarsi da un ulteriore impegno?
Ma, dico, sapete come si fa un aborto? L’avete mai visto un medico “al lavoro”? Io sì. Sono un’ostetrica. Sono stata per anni al fianco dei ginecologi, uomini e donne, posso dire di conoscere quella razza umana. Umana, sottolineo.
“Sei fortunata” mi dicono alle volte “tu lavori al cospetto della vita”. Veramente, al cospetto della vita lavoriamo tutti; ma le ostetriche e i medici della sala parto vedono nascere i bambini: non sono mica tutti sempre vivi e sani.
Arriva una mamma con una bella pancia grossa e dice: non lo sento più muovere. Ti passa un brivido nella schiena, tu sai che una madre sente il figlio, la sua presenza. Tu lo sai che loro hanno sempre ragione, le madri intendo. In sala parto prendi il figlio, lo stesso parto degli altri, le stesse doglie, l’incubatrice spenta, niente pediatra o puericultrice. Lei spinge e piange. Il bimbo è caldo, morbido, pieno del tepore di lei e coperto del suo sangue. A volte lo battezzi anche così, solo perché il desiderio abbia un gesto, il nome sia lavato.
A volte la pancia è piccola, il bimbo non più grande di un pesciolino scivola fuori, sta in un palmo, già visibile il sesso, il volto disegnato. A tre mesi, le fatidiche 12 settimane, tutto è già realizzato, il corpicino è fatto; il padre che lo vede chiede una bara.
La differenza tra un feto e un prodotto del concepimento è che lo vediamo, il bambino perfetto. Non ti abitui mai a questo.
Quando ero allieva, non avevo idea di cosa significasse essere obiettore. Durante il tirocinio in sala operatoria sono stata chiamata a fare assistenza agli Ivg. Il medico, uno dei miei professori, non ammetteva repliche: io aiutavo la donna a salire sul lettino, preparavo il campo sterile, disinfettavo, passavo l’aspiratore che, infilato in utero dal medico, ne aspirava il contenuto, appunto. Tutto liscio, in serie.
Fino a quella ragazza, che aveva l’utero malmesso, irraggiungibile il fondo con la cannula. Dovetti passare al professore una curette, come un piccolo cucchiaio, da infilare nella cavità problematica, con il quale lui mi scodellò in una bacinella che gli reggevo attenta, il resto del prodotto del concepimento: un braccio, due piedini. Neanche mezzo centimetro, ma si vedevano le cinque dita. Quando gli chiesi imbarazzata dove dovevo metterli (non concepivo l’idea di buttarli tra le altre garze sporche) lui bestemmiò forte.
Divenni obiettore su due piedi. Che non erano i miei.
Quando la legge, l’ideologia, si confronta con la realtà, la banale carne del reale, non si regge.
Non si regge a questo lavoro molto tempo.
Quando vedi o senti sotto le mani quel bambino raggomitolato nel ventre della mamma, tu capisci che devi proteggerlo, che tutto va fatto per tenerlo dentro, salvarlo. Che quello è il posto per cui è fatto.
Io che amo appoggiare le mani sulla pelle tesa e sentire il battito sotto le dita e dire alla donna: qui, le senti le manine che sfarfallano, lo senti che quando scalcia ti schiaccia la vescica e ti imbarazzi, io che vedo quel gesto tenerissimo che fanno quando si alzano e si reggono il ventre anche all’inizio, non perché pesa ma perché è il loro figlio che proteggono.
Così, sentendo la notizia di quella bimba trovata a Annecy raggomitolata ferma e zitta sotto il corpo della madre e della nonna fra i sedili, in un flash ho pensato a un bimbo nella pancia. Perché non ha urlato, pianto, non si è fatta sentire?
È stato così o i suoi lamenti non si potevano ascoltare? I suoi lamenti erano coperti dal corpo della mamma, dalla sua presenza, ultima, potente.
Le regole, si difendono i poliziotti, ci hanno impedito di aprire le portiere dell’auto crivellata, la Scientifica non ha rilevato altra vita con gli infrarossi; solo la sorella, grande e ferita, è stata trasportata altrove, curata.
Lei, piccola, taceva, abbracciata e salva.
Avrà riportato danni permanenti?
Non so; quello che mi ricordo è che un bambino, abbracciato, è salvo.
E lei ha scelto di restare in un abbraccio, diventato freddo, ma comunque amato.
Mi fa sorridere tutta quella tecnologia che non rileva il battito vitale di una bambina di quattro anni: come un’ecografia che pretende di rilevare una anomalia, infingarda, selettiva.
E poi lei nasce: esce dall’auto sana e salva.