Dopo un’ultima rintuzzata da parte francese, cala adesso il sipario sulle polemiche che hanno accompagnato il viaggio del Papa in Africa. Ma rimane l’amaro in bocca per l’ennesima disputa politico-mediatica, nella quale è stato quanto mai difficile fare chiarezza sui reali termini della questione. D’altronde, come sottolinea il giornalista e scrittore Antonio Socci, una delle parti in causa, degnamente rappresentata dalla Francia, nel parlare dell’Africa e dei problemi che l’attanagliano non aveva del tutto la coscienza pulita, e quindi nessun interesse a fare in modo che si parlasse della vicenda in termini limpidi e obiettivi.
Socci, sulle dichiarazioni del Papa non c’è stata dunque solo una reazione a caldo, ma anche in un secondo momento, soprattutto da parte francese, si è tornati sulla polemica, parlando di affermazioni, da parte del Papa, “pericolose” per la salute pubblica. Perché questa presa di posizione così decisa e insistita?
La prima constatazione da fare è che certi Paesi europei, nonché alcuni organismi sopranazionali come il Fondo monetario internazionali, dimostrano di avere la coda di paglia quando si parla di Africa. Un continente che è stato dimenticato, dopo che era stato colonizzato, e lo è tuttora dalle multinazionali. In questa situazione generale, è al contrario evidente – come anche l’Onu ha riconosciuto – che la vera presenza che non si risparmia per il bene dei popoli africani è proprio quella della Chiesa. Quindi, prima di ogni valutazione specifica sul caso, bisognerebbe sempre partire dalla valutazione dei soggetti in causa; e sull’Africa, mi pare che la Chiesa abbia tutte le carte in regola per parlare, a differenza di tutti gli altri soggetti che sono intervenuti. A partire dal presidente del Fmi, che in questo momento avrebbe ben altro cui pensare.
E per quanto riguarda invece il merito della polemica?
Da questo punto di vista mi auguro che coloro che sono intervenuti contro il Papa siano a conoscenza dei dati che attestano in maniera inconfutabile la verità di ciò che egli ha detto. Eppure anche il secondo intervento fatto dal governo francese, a conferma delle prime critiche, lascia molti dubbi a riguardo. Hanno parlato dell’importanza di una corretta informazione sanitaria, e non hanno esitato a ribadire che il condom è sicuro al 100%; mentre sanno tutti, anche i suoi più tenaci sostenitori, che non è possibile parlare di certezza assoluta. Questa sì, al contrario, è informazione pericolosa dal punto di vista sanitario.
Il Papa, poi, non ha parlato solo di questo…
Certo; come ha messo in rilievo in modo esemplare Roberto Fontolan su questo giornale, è evidente che il discorso del Papa era qualcosa di molto più articolato rispetto alla riduzione fatta dai giornali per lanciare i titoli di prima pagina. E non era solo un discorso complesso, ma anche molto accorato per le sorti dei popoli africani, dando voce a quell’attenzione e a quella presenza della Chiesa nel continente. Quindi c’è un’autorevolezza e una trasparenza da parte della Chiesa, data dall’impegno profuso sul campo, che gli altri soggetti che l’hanno attaccata non hanno. Per non parlare dei media, poi, che dell’Africa non si curano minimamente.
Qual è dunque, al fondo di tutte queste vicende, l’ostilità che ha portato allo scatenarsi di una reazione così forte?
Al fondo c’è un’ostilità preconcetta al fatto cristiano, che risale a una serie di situazioni che ormai noi accettiamo con rassegnazione e cui non facciamo più nemmeno caso. Un’ostilità che genera un’immagine distorta della presenza cristiana nel mondo, e in particolare nel nostro Paese. Guardiamo ad esempio alle statistiche: da noi l’80% si definisce cattolico, e solo il 5% ateo. Una percentuale che negli ultimi anni è andata sempre più diminuendo, soprattutto nella fascia di età fra i 15 e i 30 anni. In un Paese così, è paradossale che non si trovi quasi mai, sfogliando i giornali, un opinionista di estrazione cattolica, o non si leggano i racconti di tante storie e di opere che il cristianesimo vissuto genera. Gli opinionisti cattolici ammessi sui giornali sono quelli che si qualificano per la loro preconcetta posizione critica verso il Papa e la Chiesa. Verrebbe quasi da pensare, facendo riferimento al 5% di atei, che chi li vuol trovare li possa cercare tutti nelle redazioni dei giornali! Quindi i media non parlano della realtà dei fatti, ma di quella delle redazioni, e rappresentano la realtà che ruota intorno al ceto dei giornalisti.
A parte il caso recente delle polemiche contro il Papa, c’è qualche altro episodio che secondo lei manifesta questa posizione dei giornali?
Basta pensare al caso del referendum del 2005 sulla legge 40: tutti i giornali (tranne le ovvie eccezioni) e tutti i programmi d’informazione televisiva hanno dato voce a una sola posizione, e poi dal referendum è emerso che la stragrande maggioranza del Paese stava dall’altra parte. E per di più, su un caso così eclatante che metteva in luce un cambiamento sociologico del popolo italiano e uno scollamento tra i mass media e la gente comune, non è uscito un solo editoriale autocritico, nessuna riflessione che ripercorresse in modo problematico il Paese che i giornali avevano rappresentato, e i sondaggi che avevano diffuso. Tutto è stato impunemente rimosso. D’altronde, ci siamo abituati al fatto che contro la Chiesa si possa dire qualunque cosa senza poi ritrattare o chiedere scusa. Naturalmente, nel dir questo bisogna poi evitare di essere manichei. Per fare un esempio, ci sarebbero mote osservazioni critiche da fare sul Corriere della Sera, ma è altrettanto vero che molti temi altrove ignorati (come ad esempio le persecuzioni dei cristiani nel mondo) su quel giornale vengono affrontati seriamente.
In effetti quando si parla di difesa della Chiesa c’è sempre il rischio non solo di essere manichei, ma anche di atteggiarsi a crociati, ricadendo così nel gioco che fa comodo ai media. Qual è l’atteggiamento responsabile che i cristiani devono assumere nel prendere le difese del Papa e della Chiesa?
In questo caso, come anche per le battaglie di tipo culturale ed etico, la responsabilità apologetica è sempre secondaria rispetto al compito principale dei cristiani, che è quello della testimonianza. Certamente bisogna poi aggiungere che anche da parte del mondo ecclesiastico ci sarebbe bisogno di una certa autocritica. A volte c’è infatti una certa tendenza ad essere troppo interventisti non sulle questioni essenziali, ma su quelle che provocano i titoli dei giornali, e spesso senza una grande ricchezza argomentativa. Questo atteggiamento dà frecce all’arco di chi parla di eccesso di presenza della Chiesa sui media. C’è il rischio di una saturazione, nonché il pericolo di far ritenere che la Chiesa sia una realtà la cui missione è intervenire su questioni sociali e morali.
Le polemiche di questi giorni sono arrivate a ridosso della difficile vicenda dei lefebvriani: che eredità lascia la lettera che il Papa ha scritto a proposito di quei fatti, dove si parlava non solo di attacchi esterni ma anche interni alla Chiesa?
Quello che rimane impresso è l’atteggiamento di totale sincerità e grande trasparenza che ha portato il Papa a dire con estrema limpidezza le cose come stanno. E il tutto con quella amorevolezza e quel tono mite, che caratterizza il suo temperamento. Ma ciò che veramente ci colpisce, e che deve rimanere, è l’importanza del chiamare le cose con il loro nome, e di richiamare tutti alle proprie responsabilità. Perché è sicuramente giusta e opportuna la prudenza che spesso contraddistingue la Chiesa; ma è poi utile anche, soprattutto in determinate situazioni, il parlare chiaro, con quella libertà e quell’umiltà che il Papa ha dimostrato, e che ci ha colpiti e commossi.