Un’altra strage di donne e bambini, questa volta in Siria. Ho pensato subito pietà l’è morta, neanche più la parvenza di un’etica della guerra, un virile scontro tra combattenti, e onore a chi vince e a chi perde. È stato un attimo. Ho ripercorso per sommi capi i secoli, e mi sono venuti alla mente i bambini aggrappati al filo spinato dei lager, i corpicini martoriati dai bombardamenti, le piccole vedette, non solo lombarde, impiegate come corrieri e postini in tutte le guerre, le vergini e i ragazzi passati a fil di spada dai sanculotti, dai capitani di ventura, le piccole vittime sacrificali mandate a morire nelle crociate, gli orrori sui corpi straziati di piccoli e donne delle orde barbariche, della soldataglia romana, su su, fino alla strage degli innocenti. Per fermarci al nostro mondo occidentale, che non è il peggiore dei mondi possibili.
Dunque la nostra presunzione, la modernità, la ragione, eccetera, non ci fanno migliori dei nostri antenati, tutt’altro. Non c’è pietà nella guerra, non può essere pianificata la misericordia, regolata da norme condivise. La pietà è una scelta. O un atto d’amore, di ogni singolo uomo. Dunque, perché lo scandalo, un po’ ipocrita, davanti ai video che hanno la durezza di proporci il massacro? Meglio immaginarli soltanto, i cadaveri sgozzati e torturati, bruciati e lasciati ai cani? Ce ne sono altri a ogni angolo del mondo, a ogni ora. Eppure è stato un portato nuovo e auspicato della nostra cultura aver riconosciuto, e fatto riconoscere, i diritti dei bambini, sottoscrivere un patto trasversale ai popoli e ai governi per tutelarne la vita. Lettera morta. O al più buoni propositi calpestati dal fatalismo che fa chiosare “la guerra, si sa, non guarda in faccia a nessuno…”.
Appunto, la guerra, le guerre. Se esistono guerre giuste, che siano all’arma bianca, allora, in un campo aperto, dove si confrontino i valorosi e combattano per un Paese o un ideale, tenendo ben protette le famiglie e i più deboli. Le guerre di oggi sono tutte più o meno guerriglie, di bande l’una contro l’altra armate. Dove il nemico non è chi indossa una divisa, ma lo si riconosce dal colore della pelle, dai tratti del viso, e allora deve morire, non importa se ha soltanto dieci, dodici anni. Se vorrebbe vivere in pace, giocare, studiare, crescere, proprio come i tuoi figli.
Vale per tutti, anche per gli eserciti occidentali. Si è visto con l’impazzimento del soldato americano in Afghanistan. E speriamo si tratti di uno solo. Se costringi degli uomini a vivere nella paura, nel sangue, a spiare attentati e vendette, a mangiare polvere e seppellire corpi, a vedere i propri compagni mutilati e uccisi, puoi stupirti che qualcuno dia fuori di testa, e si metta a sparare all’impazzata? Che lo faccia in missione, o al ritorno, appostandosi ai cancelli di una scuola, di un supermercato, cambia qualcosa? I morti sono tutti uguali.
Abbiamo visto diverse versioni di Rambo, e ancora non ci crediamo, che in Vietnam si rischiava di ammattire davvero, e in Afghanistan non è diverso. A meno che sia chiaro perché si parte, e chi scegliere per l’impresa. Uomini esperti, speciali per coraggio e per umanità, capaci di star di vedetta e di curare i feriti, di far compagnia ai bambini, di preparare loro un piatto di pasta. Uomini che partono per aiutare, non per fare la guerra. Con buona pace di chi non sa distinguere, e sono quelli che urlano contro le guerre, ma poi tollerano e incitano a certe altre guerre; di chi si ostina a non capire che difendersi è necessario, almeno per la memoria di chi ha pagato ed è morto per la tua civiltà, la tua patria; senza alcun spirito nazionalista e anzi, speranzosi di riportarli tutti al più presto a casa, ecco, i nostri sodati in missione sono i soldati che vorremmo. In genere sono vittime, non carnefici.