Alla domanda esplicita di un giornalista, Papa Francesco rinnova la sua condanna alle religioni che uccidono, ma la fa seguire anche da una disapprovazione verso chi irride e dileggia: “Ma se il mio amico Gasbarri dice una parolaccia sulla mia mamma, si aspetti un pugno, è normale”. Quasi immediata la reazione, non senza uno scatto d’orgoglio, del ministro della Giustizia francese Christiane Taubira: “siamo in grado di disegnare tutto, compreso un profeta, perché in Francia, il paese di Voltaire e dell’irriverenza, abbiamo il diritto di prendere in giro tutte le religioni”. Si solleva così un problema del tutto secondario rispetto alla posta in gioco.
Il ministro francese finge di ignorare ciò che tutti sanno. La Francia non è affatto il paese dell’irriverenza e Charlie Hebdo è molto meno irriverente di quanto non si creda. Dubito che i disegnatori di questa rivista abbiano mai dileggiato la bandiera francese, né che abbiano realmente svillaneggiato l’amata Marianne come hanno fatto con i Papi o con la Trinità; dubito che abbiano mai messo alla berlina i comunardi del 1870 o i partigiani del 1942. Il capo redattore stesso — un coraggio eroico — aveva un rispetto assoluto per i valori che propugnava e non avrebbe mai dileggiato il proprio diritto “sacrosanto” all’irriverenza. Dal sacro non se ne esce mai: ogni società ne ha uno. Il comico Dieudonné per avere aggiunto al “Je suis Charlie” l’irriverente e offensivo “Je suis Charly Coulibaly” è già in carcere per “apologia di terrorismo”. In realtà l’irriverenza non è mai legittima quando tocca ciò che per noi è veramente sacro, anche nel paese di Voltaire.
Ma è poi vero che il problema sia costituito dal diritto alla satira, vera quintessenza della libertà democratica? In realtà Charlie Hebdo era, fino a una settimana fa, un settimanale in piena crisi economica: le cui copie vendute bastavano a malapena a coprire i costi. I tre milioni di persone scese in piazza domenica 11 gennaio non l’hanno fatto per difendere la libertà di stampa, né tanto meno per assicurare il diritto alla satira di una testata di luminosa tradizione libertaria. Se Charlie Hebdo fosse stato condannato da qualche corte europea al risarcimento dei danni per offesa al credo religioso, un’eventuale manifestazione per la difesa della libertà di caricatura non avrebbe riunito più di 30mila partecipanti.
A Place de la République è stato in realtà difeso un valore molto più radicale: un valore sacro, che non accetta di essere profanato attraverso il dileggio irriverente. Siamo diventati tutti Charlie non perché sia stato negato il diritto di satira, ma perché è stato cancellato quello alla vita. Siamo diventati tutti Charlie perché questa esecuzione omicida ha divorato, come in tutte le notti della ragione e in un crescendo terrificante, poliziotti feriti e a terra, giovani agenti del traffico appena assunti, semplici acquirenti di un supermercato.
Siamo diventati tutti Charlie perché, per un istante, abbiamo visto l’arroganza della potenza del kalashnikov da un lato e le vittime innocenti dall’altra. Questo ha ferito ciò che abbiamo di più caro nel nostro cuore: il nostro affetto per gli innocenti e per gli indifesi.
Il problema non è affatto politico (la libertà di stampa) ma morale (il ricorso all’assassinio come espressione del proprio sdegno). La posta in gioco non è affatto quella della legittimità del diritto a ridicolizzare e spesso ad offendere pesantemente tutto e tutti, ma quella dell’intolleranza omicida che approfitta dell’indignazione per eseguire una sentenza di morte a 360 gradi, in nome della condanna già scritta verso un’intera civilizzazione. Una civilizzazione che ha il suo cuore nel rispetto della persona, della sua integrità e dei suoi diritti, per la quale il valore della vita è un valore assoluto, uno dei pochi valori assoluti che, in epoca di relativismo culturale, può pretendere il rispetto, l’osservanza dogmatica, il rifiuto di qualsiasi distinguo.
Proprio per questo il cuore del problema non è costituito dal diritto all’irriverenza ma da quello all’esistenza, al rispetto della vita, rispetto dinanzi al quale non c’è indignazione che possa autorizzare l’assassinio. Papa Bergoglio è il vicario di Uno che non solo è stato sbeffeggiato, ma è stato aggredito, picchiato a morte e messo in croce e, per tutta risposta, ha detto “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. Con questo gesto ha posto la matrice di una tolleranza nuova; una tolleranza che non si limita solo al rispetto dell’altro, ma genera affezione. Da lì è nato il seme buono di quell’Occidente il cui cuore è nella tutela della persona umana, della sua incolumità fisica come della sua esistenza morale.