Vincenzo Di Sarno ha ucciso un uomo, un extracomunitario dopo una rissa. L’hanno preso, è detenuto da otto anni a Poggioreale.
Vincenzo è ammalato, un grave tumore al midollo osseo, è stato operato più volte. Ha lanciato tramite il sito del Corriere un appello al presidente della Repubblica, chiedendo provocatoriamente l’eutanasia. E il presidente ha risposto sollecito: si avviino le procedure per la sospensione della pena, e per la concessione della grazia.
Ci si chiede perché non siano già state avviate, e celermente. Ma la richiesta, che finalmente è stata presentata dai difensori, è stata rigettata dal giudice di sorveglianza. Parrebbe un’atrocità, una crudele forma di vindice tortura. E uno stato civile non può cedere alla tortura, alla totale mancanza di pietà. Quella Costituzione, più volte e da tante parti sacralizzata, dichiara che la pena non è solo da espiare, ma deve dare anche la possibilità di redimere, di far cambiare un condannato, riportarlo al mondo, per una nuova vita. Altrimenti, la contrarietà alla pena di morte appare un’ipocrisia.
Eppure le nostre carceri, le peggiori d’Europa, dove detenuti con colpe diverse e per gran parte in attesa di giudizio vivono in condizioni degradanti, ospitano anche molti ammalati, alcuni in gravi condizioni. Basta scorrere le denunce delle associazioni a tutela di diritti umani, quelle dei volontari che prestano nelle carceri il loro servizio, per sapere che ci sono anoressici, epilettici, disabili gravi, perfino ammalati di sclerosi, e malati oncologici in fase terminale.
Coscienza e umanità vorrebbero che questi uomini e donne fossero ricoverati in strutture adeguate, e curati. Il perché non avvenga va misurato sullo sdegno popolare, ogni volta che si tocca il tema delle carceri, perché in momenti di crisi e povertà diffuse, il cuore si stringe, e si crede che tocchi anzitutto pensare agli onesti. Va misurato sulle inadempienze e sugli sprechi dei nostro soldi pubblici, perché è da spiegare se davvero costi di meno un ammalato in carcere o in ospedale. Va misurato sulla noncuranza con cui questi temi vengono accantonati, per tornar utili a creare polveroni e consensi preelettorali. Pochi, peraltro, perché per quanto numerosi, i parenti dei carcerati rappresentano percentuali irrilevanti.
Nel caso all’attenzione della cronaca, per la sua drammaticità, ci sarebbero le ragioni per lapidare verbalmente il magistrato che ha smentito “i presupposti per un procedimento d’urgenza”. Eppure non ha detto una cosa sbagliata: ha disposto il ricovero in ospedale, “da individuarsi repentinamente a cura dell’amministrazione penitenziaria, sia sulla base della specializzazione oncologica della struttura, sia della rapida disponibilità al ricovero”.
Se le sue parole avessero seguito, come dovrebbe essere, Vincenzo Di Sarno avrebbe la giustizia che la sua situazione richiede. A meno che il giudice menta, e le sue affermazioni “non è in pericolo di vita”, siano contraddette dai medici. Si fa in fretta a stabilirlo, basta un consulto serio. E se Vincenzo purtroppo è un malato senza speranze, fargli passare i suoi ultimi giorni a casa, vicino ai suoi cari, non nuoce a nessuno, nemmeno alla vittima della sua follia.
Ma perché mai un magistrato, e pure un magistrato donna, quindi dotata naturalmente di una sensibilità accentuata, dovrebbe fidarsi di un referto falso? Per quale motivo dovrebbe accanirsi su questo detenuto in particolare? Vincenzo pesa 53 chili, e si regge a stento in piedi, non vuol curarsi, non vuol nutrirsi, e chiede la scarcerazione, come i familiari, che si possono ben capire. Ma quale battaglia stanno combattendo? Per la salute, o cosa? Nel primo caso, il ricovero e le cure, affiancate da una stretta vigilanza psicologica, sono quel di cui Vincenzo ha bisogno. E gli avvocati, vista la disponibilità del capo dello Stato, faranno in fretta a chiedere quella grazia che sicuramente arriverà, in tempi brevi.
O si tratta di una battaglia per denunciare le condizioni del sistema penitenziario? Non facciamola fare a un malato grave, e disperato. Nessuno soffi sul fuoco.