Nell’Italia dove la crisi politica sta diventando istituzionale, facendo riaccendere la spia rossa dello spread, imperversa per sovramercato una specie di scempiaggine di ritorno – o forse di scempiaggine connaturata – che trasforma l’apprensione in depressione. Tante le prove, ed eterogenee, ma una merita una nota a margine, perché riguarda un ingrediente, anzi un virus, contro cui non c’è rimedio. Una sindrome non ancora ben descritta in letteratura, ma che è un evidente mix tra ignoranza, insensibilità, idiozia e autolesionismo. È il caso della Greif Italia, filiale italiana di un grande gruppo tedesco, che ha licenziato un suo dipendente, Oussmou Lahbib, marocchino, 62 anni, invalido per un incidente sul lavoro, scrivendo nero su bianco che doveva farlo perché “la nostra società ha installato una macchina, denominata ‘Paint cap applicator’, che svolge in automatico il medesimo lavoro sino a oggi da lei svolto. Viene così soppressa la Sua posizione lavorativa”.
Avete capito bene? Sembra incredibile, ma è così. In un mondo che s’interroga con ansia sull’impatto delle nuove tecnologie sull’occupazione umana, questi della Greif individuano un signore di 62 extracomunitario che lavora da oltre vent’anni irreprensibilmente e che ha addirittura perso quattro dita della mano destra in un incidente sul lavoro, e non solo ne fanno oggetto di licenziamento individuale per ragioni economiche, ma addirittura gli spiattellano nella lettera formale con cui lo “tagliano”, che lo stanno buttando in mezzo a una strada, invalido e a cinque anni dalla pensione, perché una macchina automatica lo ha reso inutile.
Ora, quanto possa incidere sui conti dell’azienda un gesto del genere lo sanno soltanto loro: ma è chiaro che non può che essere un’incidenza molto relativa. La cattiva reputazione che da questa scelta ricade invece sull’azienda non può invece che essere molto nociva. Inoltre, anche se le leggi italiane in materia sono molto deboli, che Lahbib sia invalido, e lo sia per cause professionali, aggiunge indecenza alla scelta aziendale. Che sia un extracomunitario integrato da decenni, irreprensibile e dedito al lavoro, l’aggrava ulteriormente.
La domanda è: come fa un’azienda a dipendere da scelte di persone talmente insensibili e inadeguate al ruolo da compierle in questo modo? Chi è, cioè che uomo è e che cosa ha in testa, il decisore ultimo dal quale è dipesa questa scelta? Non potevano non esserci alternative. Non potevano mancare soluzioni diverse. Umanamente decorose. La verità è che, a monte di comportamenti di questo tipo, c’è una dilagante incultura manageriale. Intrisa di opportunismo, acquiescenza becera e in definitiva ignoranza, anche professionale. C’è la mancanza del benché minimo rispetto sociale per il valore del lavoro. La dipendenza psicologica ed emotiva da un “profittismo” miope e controproducente che non solo azzera i meriti della persona umana nel processo produttivo riducendola a ingranaggio meccanico, ma non sa più valutare le controindicazioni sistemiche di questo metodo. Per cui l’azienda che si conduca in questo modo sbaglia due volte, contro le vittime di simili scelte e contro se stessa.
Correità palese in questi metodi ricade poi sul sindacato che, troppo assorbito da decenni a difendere gli abusi di diritto dei suoi aderenti peggiori, non sa più ormai riconoscere le violazioni vere dei diritti di base, e anziché affiancarsi come periodicamente accade alle rivendicazioni proterve di pochi trascura di schierarsi a difesa inderogabile delle ragioni di chi veramente viene privato dei suoi diritti elementari.
L’opportunismo del “farsi i fatti propri” coinvolge tutta la catena dei poteri: quelli privati, per esempio associativi; quelli amministrativi; quelli giudiziari, chiaramente ormai distratti e indifferenti dalla trincea del diritto del lavoro, avaro di gloria mediatica. La stessa magistratura pronta a stracciarsi le vesti per decenni sulle vere o presunte violazioni normative della sua autonomia in materia di intercettazioni o custodia cautelare o automatismi di carriera, ha incassato indifferente l’esproprio della giurisdizione dei licenziamenti perpetrato dal Jobs Act con l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che è il padre normativo del licenziamento della Grief. Non saranno certo i 12 mesi di indennizzo offerti dall’azienda al suo dipendente a proteggerlo dall’indigenza più nera negli ulteriori quattro anni che lo dividerebbero dalla pensione, senza reddito.
Diceva Petrolini: “Più cretini di così, si muore”. È proprio il caso. Ma aggravabile, perché va aggiunto: “Più cattivi di così, si muore”.