Pur deficiente delle più aggiornate e approfondite conoscenze scientifiche, mi permetto di offrire un modesto ma reale contributo sul perché un giovane possa diventare un bullo. Dico “reale” non per superbia, ma perché questo epiteto in passato mi è stato affibbiato sul collo con una superficialità e una pesantezza che mi ha spesso ferito. Non ero io ad essere giudicato, ma la mia maschera. La solitudine è la madre di ogni “devianza”. Circondati di gente, stimati, rispettati, voluti, col telefono che squilla e il da fare che ci affanna: siamo sempre e comunque ultimamente soli. C’è uno spazio indifeso dell’animo che custodisce un fondo di tristezza cui niente e nessuno può accedere. Da dimenticare in fretta, da cancellare, da annebbiare con l’infida droga degli impegni e del successo che dall’angolo buio del potere ci strizzano sprezzanti l’occhiolino. E ci divorano. Una solitudine che può diventare rabbia, rancore, odio, violenza per un mondo che continuamente propina promesse e puntualmente delude ed inganna, perché niente soddisfa quella sete di senso che sola ci salva.
E così, l’esasperata frustrazione sembra essere l’unico rimedio a una vita che a quindici anni ha già smesso, spesso, di sedurre e affascinare. Ci si ammazza per niente, quasi fossimo mosche, come dimostra il drammatico caso della ragazza di Trieste di qualche giorno fa. “Odio la vita, la scuola, la famiglia” ha lasciato scritto… che è il modo con cui un adolescente sa dire: “mi ha deluso tutto!” Ma, allora, chi è il bullo? Chi non ha altro modo di nascondere questa amarezza e di annebbiare il suo dolore, e allora si rifugia in poco raccomandabili prepotenze e angherie. Perché, cari insegnanti, guardate bene, anzi guardate proprio i vostri alunni, e diteci: che differenza c’è in fondo tra la ragazza per bene con ottimi voti a scuola e un comportamento integerrimo da far arrossire un’orsolina, e il bullo di turno arrogante e fastidioso che tira schiaffi e dice parolacce?
In fondo, spesso, nessuna. Entrambi utilizzano le armi che l’educazione, la storia personale, le abitudini di vita mettono loro a disposizione per difendersi e parare i colpi dalla morsa opprimente della delusione.
Qualcosa che non li faccia restar soli a guardare il fondo di tristezza che li assale. Non a caso poi scopriamo spesso, con mille sorprese dei benpensanti puzzolenti, che la brava ragazza di turno ha bisogno ogni tanto di evadere dalle etichette di una novella Bovary, e che lo stesso bullo di turno ogni tanto è capace addirittura di gesti di un’umanità sconfinata che non si immaginava in grado neppure di saper pensare. Il punto, allora, è sfondare le apparenze, è attraversare noi per primi il guado vertiginoso del fiume della solitudine che tutto fa sembrare nulla. Quasi tutti gli uomini vivono per dimenticare questo, e quasi tutti gli uomini ci riescono, fermandosi sulla sponda di questo fiume senza mai attraversarlo. Cosa possiamo mai offrire ai ragazzi se noi per primi viviamo così? Al massimo un manuale noioso e pedante di buone maniere ingiallite, oppure, ora che è di moda la gara a chi è più moderno e svecchiato, fumare spinelli con gli alunni nell’illusione di farseli amici.
La responsabilità principale dell’insegnante non è anzitutto educare – inteso come sforzo per adeguarsi a comportamenti cui neanche l’educatore spesso crede più – ma attraversare per primo l’abisso che fa sembrare nulla tutte le cose, e vedere dove porta. Perché l’effimero o è la manifestazione del nulla o è il primo manifestarsi della bellezza eterna. L’educazione è conseguenza e comunicazione di questo rischio: si educa se si è disposti a correrlo. Altrimenti si dispensano consigli. Solo dal di dentro di questo impegno personale si è in grado di capire qual è la vera compagnia per la propria vita e offrirla come strada al bullo, e a tutti. Allora, è vero che il bullo pone in discussione la capacità – o l’incapacità – degli adulti di saper amare e educare, ma non nel senso moralista del dare pene più severe o regole più drastiche (cosa decisamente più semplice dal momento che è meno compromettente) ma nell’accorgersi noi per primi che siamo sulla stessa loro barca e abbiamo bisogno dello stesso loro cammino, senza mai sentirci a posto perché ormai inseriti o già “vissuti”.
In questa settimana stanno riaprendo le scuole in ogni parte d’Italia. A tutti, alunni e insegnanti, mi permetto di fare la stessa considerazione che ho fatto ad una persona a me cara: la capacità di insegnare (e di far tutto) non è mai l’esito di una bravura personale ma di una mendicanza del cuore.
(Lorenzo Ettorre)