Nonostante il Banco Alimentare sia ormai apprezzato e riconosciuto dalle aziende e dalle istituzioni, non sempre, quantomeno in termini di investimenti, viene sostenuto da queste ultime. Benché i suoi effetti, in termini di aiuto ai bisognosi, e della capacità di intercettare quelle persone animate da intendi solidali ma privi di una rete per metterli in atto, siano evidenti; questo accade perché, a differenza dei Paesi anglossassoni, dove le norme fiscali consentono interventi più stabili, «in Italia, pur con tanti proclami volti a favorire la sussidiarietà, il non profit è ancora visto come un antagonista dell’ente pubblico, o viene utilizzato solo quando le risorse economiche sono ridotte», spiega interpellato da ilSussidiario.net, Marco Lucchini..
Il Ministero inglese dell’agricoltura e dell’ambiente è recentemente intervenuto regolamentando le etichette sugli alimenti, in modo tale da indicare ai consumatori la data in cui è preferibile consumare il prodotto e quella dopo la quale è pericoloso consumarla. Si è infatti stimato che nel Regno Unito almeno il 60% degli alimenti gettati nei rifiuti siano ancora commestibili, e che ciò dipenda anche dalle incertezze sulle date di scadenza. Qual è la situazione in Italia sotto questo profilo?
Occorre fare chiarezza. Il Governo Inglese si è uniformato a una norma europea che prevede come indicazioni a tutela del consumatore il TMC, più noto come “da consumarsi preferibilmente entro mese/anno e “scade il giorno/mese”, eliminando il “sell by” cioè “vendere entro”. Ciò detto, non so se questo porterà a una riduzione degli sprechi, si potrà sapere forse fra qualche anno e dipenderà da come verrà vissuto dai consumatori inglesi. Tra l’altro, se non ricordo male, la differenza tra “vendere entro” e “consumare entro” fu introdotta anni fa per evitare gli sprechi, poiché si voleva spingere le aziende e la GDO a favorire svendite a prezzi molto bassi in prossimità della scadenza, allo scopo di favorire i ceti più poveri . Ad esempio in Italia, dove da sempre esistono solo due indicazioni, spesso non si fa differenza nel momento dell’acquisto tra una e l’altra e ci si allinea sul “scade il”, mentre solo pochi prodotti hanno questa tassativa indicazione (ad esempio il latte fresco o la panna fresca). La differenza invece è notevole. Il consumo di alimenti dopo la scadenza può essere nocivo alla salute; invece se si mangia un alimento oltre il TMC al massimo non si gustano al meglio le qualità organolettiche del prodotto. Per dare un immagine di ciò, si pensi alla fragranza di un panino appena sfornato e allo stesso panino qualche giorno dopo, secco ma ancora perfettamente commestibile. La stessa cosa non vale per una confezione di panna fresca che, oltre ad avere un sapore acidulo, può causare delle forti diarree. Sono però convinto che, una volta acquistato e messo nella dispensa di casa un prodotto, si sia meno spreconi e lo si utilizzi anche oltre il TMC, purché ben conservato.
Sempre nel Regno Unito alcune stime parlano di 13 milioni di persone che vivono sotto la linea della povertà. In Inghilterra e nel Galles, gli uffici pubblici che si occupano dei bisognosi hanno avuto disposizione di indirizzare costoro alle food bank, cioè ai banchi alimentari, gestiti da associazioni non profit. Può fare un paragone con la situazione italiana?
Le Food Bank hanno il principale compito di recuperare quello che nella filiera si accumula come invenduto, pur essendo ancora commestibile, per donarlo ad associazioni non profit che accolgono i più poveri. In questo modo lottano contro lo spreco e fanno sì che quello che il mercato non riesce ad utilizzare diventi una fonte di aiuto per chi non può acquistare, ma che comunque necessita di nutrirsi. Anche in Italia molte amministrazioni pubbliche si rivolgono alle associazioni per fronteggiare il problema dell’aiuto alimentare ai poveri e queste sono in grado di accoglierli anche grazie all’aiuto che il Banco Alimentare dà ad esse. Credo anche che gli enti pubblici indirizzino i bisognosi in quelle strutture per l’accoglienza che i volontari sanno dare e che, unita al cibo, è spesso la vera ricetta per dare speranza a chi soffre.
Quali sono le principali differenze di approccio per quanto riguarda i banchi alimentari tra il mondo anglosassone e quello europeo continentale, in particolare con l’Italia?
La differenza più rilevabile è che nelle food bank anglosassoni, comprese le statunitensi, spesso acquistano cibo se non riescono a recuperarlo, mentre il modello europeo si basa solo sul recupero di quanto non si vende. Perché si ritiene che ancora molto ci sia da fare in questo campo. Però la differenza più rilevante è nel modello organizzativo: il loro è più impresa sociale, il nostro è più basato sul contributo volontario. Questo è dovuto principalmente al modo in cui il non profit viene trattato nei Paesi anglosassoni. In questi Paesi le norme fiscali favoriscono le donazioni sia di beni, sia economiche e questo permette alle non profit di realizzare interventi più stabili. In Italia, pur con tanti proclami volti a favorire la sussidiarietà, il non profit è ancora visto come un antagonista dell’ente pubblico, o viene utilizzato solo quando le risorse economiche sono ridotte, come sta accadendo in questo ultimo periodo.
Qual è il suo giudizio sull’atteggiamento dell’Unione Europea di fronte al sempre più grande problema della povertà?
Il fatto più grave è che non c’è una politica di solidarietà comune europea, ma vige ancora il principio che ogni Paese deve affrontare il problema della povertà in modo autonomo. Questo principio poi è utilizzato secondo gli interessi dei Paesi leader. Per salvare la Grecia, dove la Germania ha notevoli interessi, si costituisce un fondo di miliardi di euro e poi la stessa Germania, il Regno Unito e altri 5 paesi del nord Europa impediscono di attuare il Programma di Aiuti Alimentari a favore di 18.000.000 di cittadini poveri europei del valore di 300.000 euro. Sul tema dello spreco, in particolare quello alimentare, invece c’è molta sensibilità da parte di tutti i Paesi.
E per quanto riguarda il governo italiano e i governi a livello locale? Viene compresa e sostenuta l’attività dei banchi alimentari? Più in generale, come viene affrontato il problema della povertà? Quali secondo lei dovrebbero essere gli interventi prioritari?
Il lavoro del Banco Alimentare viene molto apprezzato e stimato. Il che non vuol dire che venga sempre sostenuto. Noi siamo un’organizzazione che chiede di investire, non di spendere. Un euro donato al Banco Alimentare ci permette di aiutare per 20 euro una delle 8.500 strutture caritative convenzionate con noi, ma come per tutti gli investimenti occorre anche tempo perché diano il loro frutto. Spesso i governi locali hanno politiche frettolose, legate al consenso più che alla costruzione di una società più solidale, e così preferiscono spendere piuttosto che investire. La politica spesso ama più i fuochi d’artificio che i ceppi di legna da ardere per l’inverno.
Nonostante sia in vigore dal 2003, la cosiddetta “legge del Buon Samaritano” non è ancora ben conosciuta al grande pubblico. Può spiegarci in cosa consiste e quali effetti ha avuto per attenuare i problemi relativi alla povertà?
Forse al grande pubblico, ma la nostra comunicazione si è rivolta principalmente a chi poteva usufruirne e cioè la GDO e la Ristorazione Collettiva e in questo direi che ormai pochi non la conoscono e già molti ne usufruiscono. Certamente ha avuto e ancora ha difficoltà ad essere accettata, per retaggi storici o per arbitrarie interpretazioni sia dei manager delle aziende che delle ASL. Tuttavia, sono convinto che il veloce sviluppo che si è manifestato nel 2011 rispetto agli anni precedenti confermi quanto detto prima: le cose fatte bene hanno bisogno di tempo per affermarsi, ma poi rimangono nel tempo, non seguono le mode. Semplice spiegare in cosa consiste, basta spiegare come funziona il programma Siticibo che la FBAO (Fondazione Banco Alimentare Onlus) ha promosso a partire dalla Legge del Buon Samaritano. Le porzioni non consumate nelle mense aziendali, oltre al pane e alla frutta non distribuiti nelle mense scolastiche, vengono stoccate dal personale delle società di ristorazione. Dopo un processo di abbattimento della temperatura, i volontari passano alla mattina presto per il ritiro del cibo, che poche ore dopo consegnano alle strutture caritative beneficiarie. Gli effetti sono presto detti: dal 2003 ad oggi sono stati recuperati più di 1,3 milioni di porzioni di cibo cucinato, 576 mila chili di frutta e 540 mila di pane pari a un valore stimato in 4,6 milioni di euro di corrispettivo in pasti cucinati e alimenti che, grazie alla collaborazione con gli enti caritativi, finiscono sulle tavole delle famiglie in condizione di povertà.
Per concludere, e volendo sintetizzare l’attuale situazione, qual è il problema principale cui si trova di fronte chi vuol combattere la povertà nel nostro Paese?
La solitudine, e non parlo dei poveri ma degli operatori sociali, dei volontari, spesso anche di molti religiosi e religiose che da anni combattono contro questa piaga. Per questo ritengo che la Rete Banco Alimentare oggi non recuperi solo cibo, ma a volte recuperi anche persone che, sfinite nel loro donarsi al prossimo più bisognoso, trovano nel nostro piccolo contributo materiale ed umano motivo per rigenerarsi e ripartire. Solo in Sicilia nel 2010 hanno chiuso più di 200 strutture di accoglienza per impossibilità a continuare il loro compito e, nella maggior parte dei casi, non sono state le risorse economiche la causa, bensì la mancanza di persone che aiutassero a far fronte alla crescente richiesta di aiuto. Questo è ciò che più mi addolora personalmente.