Ho scritto un libro su uno scrittore suicida, Cesare Pavese, e nelle decine di incontri di presentazione a cui sono stato invitato ho sempre trovato qualcuno del pubblico che mi poneva la domanda sul perché del gesto estremo dello scrittore piemontese. È una domanda a cui mi sono senza eccezione rifiutato di rispondere, se non rimanendo sul vago e soprattutto facendo notare che la scelta di togliersi la vita è misteriosa e conseguenza di una catena di motivi e precedenti di difficile, se non impossibile, interpretazione. Questo vale per tutti, per un grande scrittore come per chiunque altro, anche e soprattutto per una giovane, come Rosita Raffoni, che lo scorso 17 giugno, a sedici anni, si è gettata dal tetto della sua scuola, il liceo classico di Forlì, morendo per lo schianto.
Rosita andava bene a scuola, dove aveva concluso l’anno scolastico con ottimi voti, era impegnata come educatrice nel centro estivo della sua parrocchia, aveva una famiglia normale, con genitori e un fratello, maturando nella stessa scuola. Cosa succeda nella mente e nel cuore di una ragazza così è difficile da dire: e il gesto rimarrà sempre enigmatico e di complicatissima definizione; di fronte ad esso, come per Pavese, viene più naturale il silenzio e un profondo rispetto.
Anche per questo la notizia di ieri, rimbalzata sugli organi di stampa, soprattutto locali, ha fatto più che mai trasalire: i genitori di Rosita sono stati denunciati per istigazione al suicidio e maltrattamenti in famiglia, e sono ora sotto indagine per opera della procura di Forlì. Una lettera della ragazza, trovata nello zainetto lasciato sul tetto della scuola, ha portato gli inquirenti a questa decisione. Vi si parla di proibizioni ripetute a frequentare gli amici e anche di continuare gli studi in Cina, secondo un desiderio della ragazza stessa. Forse di un voto al di sotto delle aspettative. Questo è bastato perché iniziassero le indagini, con tanto di perquisizioni in casa e sequestro di scritti e computer.
Anche stando a tutte le ragioni riportate dalla stampa, c’è qualcosa di macroscopico e sproporzionato nell’avvio di una simile azione legale ed è impossibile non pensare ai genitori che, assieme al colpo di quello che è il più grande dolore del mondo, la perdita di una figlia, ora dovranno vivere il calvario di un’indagine e forse un processo che li inchioderà per anni.
Dovranno difendersi dalla morte della loro figlia, non è assurdo? Mettiamo pure che sia comprovata la loro severità: può bastare a renderli colpevoli assoluti, aggravando un senso di colpa che già staranno provando in maniera sterminata e terribile, come tutti i genitori a cui è accaduta una tragedia del genere (e sono molti: nei due soli mesi estivi di uno degli anni scorsi in Italia si sono tolti la vita una settantina di ragazzi delle scuole superiori)?
Non conosciamo Rosita e la sua famiglia. Ma oggi qualsiasi genitore vive l’esperienza che sto per dire. Sembra di abitare un mondo in cui tutto pare organizzato a rendere i nostri figli fragili, volubili, instabili, sul baratro di scelte tremende. Molti bevono e si drogano, e non sanno neanche il perché. Mai come oggi l’adolescenza è una lotta con la morte. I ragazzi sanno oscuramente di desiderare per sé cose grandi, e ricevono sciocchezze, senza ormai neppure avere le parole e le categorie per esprimere quel grande desiderio che hanno; scelgono come significato assoluto dell’esistenza un particolare, spesso somigliante a una fuga (studiare in Cina!), e paiono non vedere tutte le cose che ci affanniamo a dare loro, forse troppe e sconnesse. Non sanno avere speranza; sono affascinati dalla durezza e dal torbido, quando vorrebbero segretamente amore e limpida amicizia. Danno agli affetti e all’impegno, ad esempio nello studio, un senso che è senza orizzonte, limitato a traguardi assolutamente inadeguati all’oscura sete del loro cuore: il voto!
E tutto ciò che abbiamo preparato per loro, la cosiddetta società, li spinge proprio in quella direzione, togliendo loro persino le parole per esprimere la grandezza delle loro aspirazioni, attraverso strumenti apparentemente affascinanti e tecnologicamente modernissimi, creando così una sensazione di vuoto e impotenza anche in coloro che fanno il mestiere oggi più difficile del mondo e che, statistiche alla mano, sempre meno vogliamo fare: i genitori.