Piazze laiche, piazza cattolica. Le une contro l’altra e viceversa. Ma ha senso questa contrapposizione? E’ una domanda su cui ha riflettuto don Julián Carrón nella sua lettera di domenica al Corriere della Sera. Le prime chiedono di riconoscere nuovi diritti, la seconda difende i diritti tradizionali. Le prime considerano le unioni civili come conquista di civiltà — si potrebbe precisare: della civiltà moderna e occidentale —, la seconda giudica le medesime quali attentato ai fondamenti della civiltà occidentale — si potrebbe aggiungere: con radici giudaico-cristiane.
Insomma, ancora una volta tradizione illuminista contro tradizione cristiana, laici contro cattolici. I primi credono di poter ottenere una risposta alla propria insoddisfazione attraverso una legge. Chi li contrasta pensa di difendere le basi della società. Ma Carrón sembra esprimere perplessità nei confronti di entrambi.
Questa contrapposizione, infatti, non porta da nessuna parte. Si tratta di un dialogo tra sordi. In particolare, chi pensa di difendere i valori tradizionali e le fondamenta della società non riesce minimamente a smuovere chi rivendica nuovi diritti. E poiché chi si pone da questa parte rivendica, in genere, la propria identità cristiana, questo fallimento fa pensare. Mons. Carrón invita implicitamente ad abbandonare lo scontro di civiltà tra “stranieri morali” del nostro tempo e cioè tra uomini e donne che pur appartenendo alla stessa società fanno riferimento ad universi morali molto differenti. Suggerisce, inoltre, di superare la pur importante discussione giuridica. Le leggi sono importanti, non c’è dubbio. Ma per i cristiani non sono tutto. Anzi, la loro responsabilità si pone soprattutto su un altro piano. Da parte di persone omosessuali, egli osserva, emerge un desiderio profondo e un’insoddisfazione acuta. Alcuni di loro pensano di trovare una risposta alla propria inquietudine con una soddisfazione limitata. Ma è una contraddizione: come può un desiderio profondo accontentarsi di una risposta limitata? In questa contraddizione, che è poi la contraddizione di ogni uomo e di ogni donna, specie nel nostro tempo, i cristiani possono e devono inserirsi.
Questa riflessione non è un invito all’evasione davanti alle urgenze del nostro tempo. Al contrario, è uno stimolo per scendere in profondità. Prima del Concilio, nei seminari e nelle facoltà teologiche si insegnava una materia chiamata “apologetica”. I vecchi professori che la insegnavano, la definivano familiarmente: “di tutto un po’”. Ma aveva anche un nome più nobile: si trattava, infatti, dei preambula fidei. Dopo il Concilio, gli stessi temi sono stati trattati sotto un’etichetta molto più impegnativa e si è parlato di “teologia fondamentale”. Ma in questi passaggi — che ovviamente sono stati molto più complessi e che qui riassumo in modo molto schematico — si è perso qualcosa che dovrebbe esserci in ogni vera apologetica. E, soprattutto, si è perso di vista il problema di fondo: cogliere nell’uomo la domanda di Dio, comunque essa si manifesti e, soprattutto, comunque essa si nasconda.
Saper cogliere questa domanda è stata la grande capacità di don Giussani, che ha rivelato a tanti di averla dentro di sé senza saperlo. Descrivendo l’inquietudine di un omosessuale che resta insoddisfatto al di là del riconoscimento dei suoi diritti, mi pare che Carrón alluda proprio a questa domanda. E che chieda a chi vive una vita di fede di essere sufficientemente attrattivo da farla emergere in colui o in colei che non sa di averla dentro di sé.
Tutto il resto — qui ovviamente non pretendo di interpretare Carrón ma esprimo solo il mio pensiero — è secondario. Gli omosessuali chiedono che vengano rispettati i loro diritti a coltivare un affetto con un compagno di vita, a vedersi protetta la loro esperienza di coppia, a potersi aiutare reciprocamente in caso di malattia? Va bene. C’è poi chi chiede che venga salvaguardata la specificità della famiglia, protetti quei genitori che obbediscono al comandamento di Dio di generare figli, garantito ai figli di avere — per quanto possibile — un padre e una madre, impedire che una donna sia costretta ad “affittare” il proprio utero? Va bene. Ma è probabilmente vano chiedere ad una sola legge di garantire tutte queste cose e soprattutto chiederle di tradurre in rigorose norme giuridiche quella realtà incomprimibile e indivisibile che è la misericordia, vero nome di Dio come ci ricorda papa Francesco.