Sono appena rientrato dalla visita ai luoghi terremotati dell’Abruzzo e sto pensando a cosa racconterò a casa di questo viaggio, non programmato. Ripensando a quello che ho visto cerco di mettere ordine tra i pensieri per poter raccontare quello che in questi giorni sicuramente in televisione non si è visto, nonostante lo spiegamento di giornalisti presenti.
Ero stato invitato in Abruzzo dal Ministro delle Politiche Agricole Luca Zaia e pur avendo visto solo un piccolo spaccato del dramma che si sta compiendo, credo che i tre incontri che sto per raccontare , imprevisti dal programma della visita, descrivano bene quello quello che le vittime del terremoto stanno vivendo.
La meta fissata era Onna, l’epicentro del sisma, un paesino poco lontano da L’Aquila, con circa 400 abitanti, fino a domenica sera, oggi ne conta 40 in meno.
Lo scopo della visita del ministro era quello di rendersi conto da vicino dei danni subiti dalle aziende agricole locali e dalle famiglie che le conducono per capire quali interventi programmare. Mentre ci avvicinavamo alla prima di queste aziende ho ricevuto una telefonata che mi ha costretto a rallentare il passo e poi a fermarmi. Finita la conversazione vedo che la strada che porta all’azienda agricola è stata bloccata dai vigili del fuoco perché le case che la costeggiano sono pericolanti, così, non potendo proseguire, sono obbligato ad aspettare il ritorno della delegazione. Nello stesso istante scorgo al mio fianco un ometto, di circa 70 anni, immobile che fissa la casa di fronte. E’ zitto, gli occhi sembrano ripassare il film della sua storia, della storia della sua famiglia che improvvisamente si era interrotta, come se la pellicola fosse uscita dal binario per alcuni minuti, pochi, ma sufficienti per stravolgerne la trama. Anche se l’uomo non parla sento dentro di me echeggiare la sua voce che chiede «perché?», e non trova risposta.
Riaggregatomi al gruppo ci incamminiamo per visitare la tendopoli. Da una parte tanti volontari che si prodigano a montare le tende e ad allestire il minimo necessario per renderle accoglienti. Subito viene da pensare che almeno così gli sfollati avranno un riparo, poi però ti rendi conto che la maggior parte della popolazione anziana su quelle brandine militari non sarebbe mai riuscita a distendersi… In queste notti poi lo sbalzo termico è elevato: di notte si arriva a zero gradi e dentro le tende si forma una condensa che rende il tutto ancora più invivibile.
Tra le persone anziane scorgo una donna, seduta davanti a una tenda, che fa giocare una bambina. Magari non è neppure sua parente, probabilmente lasciata alle sue cure da una giovane madre occupata in faccende più gravi. Improvvisamente esce da un’altra tenda una ragazza di circa 25 anni, che inizia a protestare, e in breve tempo le proteste diventano insulti, verso tutti, per le inefficienze che a suo dire si riscontrano. La voce si fa talmente alta che altre donne che la sentono si uniscono a lei. Mi veniva naturale guardare l’anziana che curava la bambina e la giovane che protestava: era evidente che una delle due stonava. Ma chi? Mi ha aiutato a capirlo un’altra donna, anche lei sfollata, medico del paese: la prima cosa che ha detto al ministro è stata: «Grazie. Ringrazi tutti quelli che ci stanno aiutando, alcune cose si potevano organizzare meglio, ma questo è il tempo in cui ciascuno deve dare il proprio contributo: voi a Roma, i volontari qui, ma anche noi, perché non possiamo aspettare passivi, dobbiamo collaborare, dobbiamo sopportare le fatiche e consolare il dolore della nostra gente. Vede, per fortuna il mio pc si è salvato, così poso aiutare i colleghi che sono sopraggiunti fornendo loro le schede cliniche dei miei pazienti, soprattutto degli anziani».
Il vecchietto solo con una domanda senza risposta, una dottoressa che fa il possibile per condividere con gli altri quel poco che era rimasto, la ragazza che protesta, tutti sono accomunati da una sorta di risentimento, da un disperazione che si legge negli occhi.
E’ l’ora di trasferirsi in altri due paesi vicini, ma mentre ci avviciniamo al fuoristrada incontriamo due suore. Due suore da neorealismo italiano. Una piccola, robusta e con un paio di scarpe da tennis arancioni, l’altra alta e magra con una statua della Madonna tra le braccia. La suora alta vuole raccontarci qualcosa: «Sapete cosa è successo? Durante la prima scossa questa Madonnina è balzata fuori dalla nicchia cadendo in piedi sull’altare. La vedete, non ha un graffio, anzi sembra più bella di prima. Ora guardate alle mie spalle, cosa vedete? Tutto è crollato o inagibile, tutto, tranne la nostra Chiesetta, lì stava la Madonnina. Per questo stiamo qui e siamo qui da 120 anni, perché c’è Lei. Vogliamo stare vicino alla nostra gente, perché la nostra gente deve sapere che Lei ci protegge, tutti i giorni». E mentre lo diceva mostrava la statuetta come si mostra la propria figlia appena nata, e poi la stringeva tra le braccia come se fosse viva, o meglio, perché lei si sentiva viva con la Madonnina nelle sue braccia.
Ecco quindi cosa dirò stasera, tornato a casa mia: «Carissime (ho una moglie e tre figlie): è brutto esser soli di fronte alle tragedie della vita, è importante darsi da fare, collaborare, non lamentarsi, ma anche questo non basta. Per vivere occorre ricordare, testimoniare, abbracciare sempre chi, in qualsiasi circostanza, ci dona “una speranza contro ogni speranza”». A pensarci bene le due suore erano le uniche persone che ho visto che non avevano il volto triste.