CARTAGENA — La giornata era iniziata con un’intuzzata di quelle che ti fanno vedere le stelle: una frenata improvvisa della papamobile e Francesco va a finire contro il parabrezza. Risultato escoriazione sul sopracciglio sinistro e un occhio nero, oltre a una macchia di sangue sulla tonaca bianca che provoca sempre qualche brivido. Poco dopo davanti la casa santuario del confratello che nella prima metà del seicento si struggeva per gli schiavi che le navi dei negrieri scaricavano nella baia, un cerottino bianco e un sorriso convinto, dichiaravano al mondo che per Bergoglio l’incidente era più che archiviato. Del resto le ultime ore in Colombia per Francesco erano troppo preziose. Doveva ancora consegnare qualche parola pesante al popolo che per cinque giorni l’aveva seguito senza distrarsi mai un momento.
Eppoi Cartagena merita attenzione. La città coloniale che si affaccia sui Caraibi, con i suoi balconi in legno, le facciate colorate, le fortificazioni e gli edifici in pietra, racconta una bellezza costata sangue e lacrime. Quelle degli uomini e delle donne che finivano nella stiva di qualche veliero, destinati al porto che insieme a Veracruz, in Messico, si contendeva il mercato della carne umana. Cartagena de Indias è oggi la città dei diritti umani, ma un tempo era il famigerato approdo delle navi ricolme di negri. Gli stessi che quando Pietro Claver vedeva entrare in porto, correva ad incontrare, per consolare e assistere. L’apostolo dei negri è stato il riferimento ideale del pontefice nella tappa conclusiva del suo ventesimo viaggio, l’ispiratore di una serie di interventi che hanno guardato alla Colombia invischiata nel processo di riconciliazione nazionale e al mondo che continua a produrre merce umana. Il gesuita del XVII secolo era un uomo buono, uno che si svenava per portare sollievo a chi veniva catapultato nel nuovo continente per morire di fatica. Morì solo e abbandonato, bistrattato dai suoi che lo definivano “mediocre”, criticato da gran parte dell’intellighenzia del tempo, e tenuto a distanza dalle signore immerlettate che si rifiutavano di entrare nelle chiese dove aveva fatto entrare i “negri”. Insomma un santo, che aspettava le navi dall’Africa per fare una carezza, asciugare una lacrima, baciare le piaghe degli incatenati.
Francesco ha raccontato di lui all’Angelus, davanti alla splendida chiesa gesuita che oggi è intitolata a Claver, prima di incontrare la comunità afroamericana che nella Cartagena di oggi i confratelli di San Pietro continuano ad assistere. Ma l’ha indicato come modello anche nella zona portuale di Contecar, dove si è consumato l’ultimo atto del suo soggiorno colombiano. Era il momento di tirare le somme e Francesco ha alzato l’asticella. Nel suo messaggio finale alla Colombia ha giocato il tutto per tutto, per spiegare la sostanza che deve avere la riconciliazione nazionale. Partendo da un assunto evangelico: non c’è nessuno totalmente perduto che non meriti vicinanza. Il peccato del reietto interpella tutti ma coinvolge soprattutto e prima di tutto la vittima. E’ lei che deve prendere l’iniziativa perché chi ha fatto il male non si perda.
E’ la logica della 99 pecorelle e del pastore che va a cercare la centesima persa. Una bella botta per chi ancora sente nella carne i chiodi della crocifissione. La logica rivoluzionaria del Vangelo, quella che Francesco ha riconosciuto nelle tante testimonianze ascoltate in Colombia: uomini e donne che nonostante ferite e lacrime hanno fatto il primo passo verso il proprio carnefice. Perché non bastano politica e diritto per fare la pace, non è sufficiente il disegno di quadri normativi e accordi istituzionali tra gruppi politici, occorre l’incontro personale e riparatore, lo scontro di cuori, la bestiale fatica di guardare negli occhi il proprio vecchio nemico per spiegarsi e perdonarsi, in Verità e Giustizia.
Certo il Papa ha anche ricordato che nel processo di pace il protagonista è il popolo, che la riconciliazione non è appannaggio di élite e gruppi sociali, che non si deve normalizzare la violenza e l’esclusione sociale, che bisogna lavorare come Claver per la dignità e la speranza degli esseri umani. Ma è in quella richiesta assurda e apparentemente paradossale che si gioca la possibilità di farcela la Colombia. Nel perdono delle vittime, nella salvezza donata al carnefice. E’ l’unico passo da fare: andare incontro agli altri con Cristo.