Nicola Campolongo, un bambino di tre anni, è stato ucciso e bruciato insieme al nonno e alla sua compagna dalla mafia calabrese. Claudio Magris ha scritto sul Corriere della Sera di ieri un commento crudo, che evoca anche la pena di morte e che il suo giornale ha titolato: “Il boia di Nicola merita l’inferno”. Se ne potrebbe discutere, forse sarebbe anche opportuno. Si potrebbero scrivere parole di indignazione. Oppure, cavalcando una certa retorica devota, ricordare il male che è anche in noi. O toccare il tasto di questa nostra società schifosa, e non parlo del sud, ma di tutto, compresa la cosiddetta provincia felice, che appunto non c’è più.
Ma le parole suonano vuote e preferirei non aggiungerne. Il Vescovo di Cassano Jonico ha detto che il volto di quel bambino è “un appello senza parole”. E Giovanni Paolo II nella valle dei Templi urlò in faccia alla mafia: “un giorno verrà il Giudizio!”. Allora mi è tornato alla mente un brano della Apocalisse di San Giovanni, nella quale con una visione potentissima e plastica, l’apostolo descrive, quasi forzato, quasi balbettando, lo scenario della fine dei tempi, quando inizierà il grande Giudizio finale. L’Apocalisse è un testo affascinante e oscuro, difficile da interpretare. Dice San Giovanni: “Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio nel cielo per circa mezz’ora”.
Mi colpisce moltissimo questo particolare. Penso all’umanità intera radunata sotto lo sguardo di un Cristo come quello di Michelangelo, fermata in questo lunghissimo totale silenzio. Attonita. E’ così che vedo le figure nella cappella Sistina, come sospese nel tempo, più che nel cobalto del cielo di sfondo. Mezz’ora forse è un simbolo, ma anche fosse letterale, sarebbe un lasso lunghissimo, un tempo insopportabile per il rendersi conto di quello che siamo, di quel che è stato fatto, di ogni delitto commesso. Tormentoso più che la paura della pena. Uno specchio implacabilmente vero. Non so se augurare l’Inferno, che pure esiste. So che vorrei giustizia subito, ma non è possibile. Occorre aspettare.
C’è un’altra rappresentazione geniale dell’Apocalisse, quella del timpano di Moissac, nella quale il Cristo giudice raccoglie l’umanità intera attorno a sé in un ordine armonico e composto. Adesso è il disordine. Intanto però, nel mezzo dell’orrore quotidiano, c’è dell’altro. Dell’articolo di Magris trattengo soprattutto un pezzo della sua frase finale, in cui, accanto al Signore che incenerisce Sodoma, ricorda la tenerezza di Gesù (il Signore che accarezza i bambini). Stesso concetto di Enzo Jannacci, che, sempre sul Corriere, disse che ci vorrebbe “una carezza del Nazareno”. Ecco cosa resta non solo alla fine, ma anche oggi, ben piantato in mezzo alla malvagità, a quella che è ogni giorno, sempre di più, banalità del male.