Nello scorso marzo a San José in Costarica è stato firmato un documento di 9 articoli frutto del lavoro di più di un anno di 31 esperti di diritto internazionale, di relazioni internazionali, di sanità pubblica, scienziati , medici e rappresentanti di organizzazioni internazionali e di pubbliche amministrazioni. Lo scopo di questo documento, noto ormai come gli Articoli di San José, è di rendere noto ai governi dei vari Stati, agli operatori nei vari settori coinvolti e all’opinione pubblica, come siano del tutto false le affermazioni che vorrebbero presente nel diritto internazionale un nuovo diritto all’aborto. Questo diritto non esiste, anche se affermato perfino da esponenti di organizzazioni delle Nazioni Unite. Il documento è stato lanciato proprio all’Onu in una conferenza stampa tenuta il 6 ottobre scorso e presentato anche alla Camera dei Lord inglese il 10 ottobre su iniziativa di due lord cattolici inglesi firmatari del documento, Lord David Alton e Lord Nicholas Windsor, cugino della Regina Elisabetta. Gli Articoli verranno quanto prima presentati anche al Parlamento europeo, al Parlamento italiano ed in altre istituzioni. Ilsussidiario.net ha intervistato il professor Paolo Carozza, della Facoltà di legge dell’Università di Notre Dame, Indiana, dove è direttore del programma di diritto internazionale dei diritti umani e del nuovo programma su “legge e sviluppo umano”.
L’interpretazione dei diritti umani varia notevolmente da Paese a Paese. Come si può affermare con sicurezza che l’aborto non fa parte dei diritti umani?
La risposta si articola su diversi livelli. In primo luogo, gli Articoli di San José si riferiscono esplicitamente alle leggi internazionali sui diritti umani e pongono semplicemente in evidenza il fatto, verificabile, che nessun trattato universale sui diritti umani, né alcuna legge internazionale consuetudinaria, contiene un diritto all’aborto. L’unico trattato che fa eccezione è un trattato regionale sui diritti umani applicabile in Africa.
In effetti, il linguaggio con cui sono scritti i principi relativi ai diritti umani, piuttosto generale e aperto, consente di per sé una vasta gamma di interpretazioni e alcuni organismi creati dai trattati dell’Onu hanno cercato di trarre vantaggio da questa ambiguità per interpretare, per esempio, le misure relative alla salute o alla privacy come garanzie anche di accesso all’aborto. A questo livello e, correttamente, sempre come una questione di diritto internazionale, gli Articoli di San José sostengono la necessità di una appropriata definizione dell’autorità interpretativa di simili comitati, che non sono né dei tribunali, né hanno il potere di emettere interpretazioni autorevoli dei trattati.
Sotto questo profilo, uno dei punti più importanti posti dagli Articoli è che non solo l’aborto non è un diritto riconosciuto internazionalmente, ma che gli Stati hanno una fondamentale libertà, in realtà una responsabilità, di opporsi a interpretazioni tendenziose di organizzazioni internazionali che manipolano le norme dei trattati per loro scopi altamente ideologici.
Infine, sotto tutti gli Articoli, almeno implicitamente, vi è un’argomentazione, meno giuridica ma forte, contro l’esistenza di un diritto di nessun tipo all’aborto: le più valide prove scientifiche a disposizione dicono che, dopo il concepimento, è presente una vita umana distinta. Il riconoscimento di un “diritto” a distruggere intenzionalmente un’altra vita umana è quindi incompatibile con una concezione autentica dei diritti umani universali, fondati sulla premessa che tutti gli esseri umani hanno uguale e propria dignità.
Secondo le organizzazioni abortiste, il feto nelle prime settimane dopo il concepimento non è ancora un essere umano. In questo senso, come può essere utilizzata contro l’aborto la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani?
Personalmente, non penso che la Dichiarazione Universale sia particolarmente utile per contrastare le forti pressioni in campo internazionale, economiche e politiche, dirette a espandere il diritto all’aborto. Essa è troppo generale, necessariamente, e non tocca volutamente le questioni più difficili relative ai diritti umani, incluso chi può essere considerato “essere umano”.
Penso, tuttavia, che le conoscenze della biologia della riproduzione umana, insieme al principio fondamentale che tutti gli esseri umani hanno uguale valore, dovrebbero condurci a ritenere il diritto alla vita, sancito dalla Dichiarazione Universale, comunque applicabile alla vita umana, sia prima che dopo la nascita. Quanto meno, dovrebbero portarci a rigettare ogni tentativo di manipolare e corrompere il linguaggio e gli ideali dei diritti umani per giustificare l’uccisione di esseri umani non ancora nati.
Se organizzazioni o attori internazionali non rispettano i trattati, cosa si può fare per porre rimedio al problema?
Non vi è mai la garanzia che nessuno degli attori internazionali compia errori o, perfino, abusi della propria posizione, anche se si tratta di organizzazioni internazionali che si occupano dei diritti umani, in generale altrimenti valide e apprezzabili. Anche queste organizzazioni sono fatte da esseri umani e il rischio della libertà umana e il bisogno di capacità di giudizio e ragione saranno sempre presenti in ogni sistema giuridico. Il rimedio più importante è sempre avere il coraggio di dire la verità e dedicare noi stessi al lavoro per il bene comune, con ragionevolezza e con passione per ciò che è più autenticamente umano. Sotto questo aspetto, il problema che stanno cercando di affrontare gli Articoli di San José è che la lobby in favore del diritto di aborto ha spesso successo per la mancanza nell’arena internazionale di voci che si oppongano ragionevolmente alle loro posizioni. Chi ha a cuore il valore di ogni vita umana deve essere presente sulla pubblica piazza, impegnato in politica, nel diritto, nella cultura, altrimenti non vi è nessuna speranza.
Secondo la Costituzione degli Stati Uniti “tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti sono cittadini degli Stati Uniti. Nessun stato deve togliere la vita a nessuna persona”. Tuttavia, l’aborto è legalizzato negli Stati Uniti. Perché lei pensa che si possa combattere contro l’aborto su un piano legale e non solo culturale?
Si potrebbe dire molto sulla storia e la legislazione sull’aborto e il diritto costituzionale negli Stati Uniti, rapporto che è stato altamente conflittuale per decenni. Ma tra le altre cose, la storia dimostra che non c’è una chiara e netta distinzione tra diritto e cultura. È ovvio che un approccio giuridico che non tenga nessun conto del contesto culturale in cui opera è destinato a essere inefficace e a fallire. Allo stesso tempo, però, si deve considerare il diritto come una parte della cultura e come uno degli strumenti, in realtà uno dei più potenti, per formare cultura. Il diritto è, ed è sempre stato, nelle nostre società un importante strumento pedagogico per esprimere e trasmettere ciò che ha valore e ciò che è richiesto dalla giustizia e dal bene comune. Sarebbe perciò ugualmente riduttivo un approccio puramente “culturale”, che non tenga conto del ruolo centrale del diritto nelle nostre società.