Domani la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo è chiamata a pronunciarsi sul ricorso fatto dall’Italia contro la precedente sentenza della Corte del novembre scorso, la cosiddetta «sentenza del crocifisso». Per la Corte il simbolo cristiano, se esposto in luogo pubblico, costituirebbe una violazione della libertà religiosa.
Ma fino a dove può spingersi la Corte europea? Pochi giorni fa il presidente Napolitano ha usato parole molto chiare: «sulle simbologie religiose è più opportuno che decidano i singoli stati, che percepiscono meglio i sentimenti diffusi nelle rispettive popolazioni». Va riconosciuta – sono sempre parole del Capo dello Stato – «la rilevanza pubblica e sociale del fatto religioso», senza nulla togliere «al valore della laicità dello Stato». «La sentenza di Strasburgo fa torto ai fatti e alla storia – dice Carlo Cardia, docente di Diritto ecclesiastico -. Sul piano strettamente giuridico c’è da essere ottimisti, ma la vera minaccia viene dal laicismo imperante».
Professor Cardia, come giudica le affermazioni di Napolitano alla vigilia di una scadenza così importante?
Hanno un fondamento nella giurisprudenza stessa della Corte di Strasburgo, che nei trattati europei ha riconosciuto più volte il principio di sussidiarietà. Proprio in base ad esso sono gli Stati – salvo casi eccezionali dove vi siano violazioni evidenti e specifiche della libertà religiosa – a meglio poter valutare la situazione specifica. Nel caso, l’esistenza di tradizioni e di sentimenti religiosi profondi.
Cosa vuol dire in questo caso applicare il principio di sussidiarietà?
Vuol dire che se si parla della Russia, sarà la Russia a comprendere molto meglio di un giudice europeo qual è il substrato culturale e religioso della Russia stessa. Dove la tradizione ortodossa è maggioritaria, ma con presenze significative buddiste e musulmane. Ecco perché solo il singolo stato può conoscere realmente queste situazioni. Tanto è vero che quando il giudice europeo si è occupato dello Stato italiano, ha detto cose che non stanno né in cielo né in terra.
Con la sentenza del novembre scorso la Corte sembra aver sancito che nessuna tradizione deve essere preminente se si vuol garantire la libertà di tutti. Lo spazio pubblico, insomma, deve essere «neutro». È così?
CLICCA QUI SOTTO PER CONTINUARE LA LETTURA DELL’ARTICOLO
Che lo spazio pubblico debba avere una sua neutralità nessuno lo discute, ma che neutralità voglia dire abolire simboli che hanno una tradizione millenaria, come il crocifisso, è molto discutibile. Nello stesso spazio pubblico ci sono paesi come la Francia che non ammettono il velo islamico. L’Italia invece lo ammette. Lo stesso vale per simboli religiosi meno conosciuti coi quali dovremo presto fare i conti, pensiamo al turbante dei sikh. Il punto ancora una volta è: chi dev’essere a decidere su queste situazioni? Il giudice di Strasburgo o lo Stato?
Come si spiega questa svolta radicale verso il principio neutro della laïcité alla francese?
Si spiega con una certa tendenza laicista che si è venuta accentuando negli ultimi tempi. Però non è una tendenza univoca ed esclusiva, come dimostra lo stesso operato della Corte di Strasburgo. Pensi che addirittura ha salvaguardato la censura di un film avvenuta in Austria, basandosi sulle tradizioni religiose.
Perché la Corte ha trattato il crocifisso in modo così restrittivo, come il frutto residuo di uno stato confessionale?
Qui c’è stato un errore clamoroso della Corte, quando ha detto che il crocifisso è stato introdotto in Italia con lo Statuto Albertino che aveva all’articolo 1 il principio confessionista della religione cattolica come religione di Stato. Ma la nostra storia non è questa e prima di fare una sentenza sull’Italia occorre conoscerla, perché il principio dello Statuto Albertino cadde immediatamente in desuetudine con il separatismo risorgimentale. Lo Stato introdusse il crocifisso con la legge Casati del 1859, dopo che la Chiesa aveva scomunicato tutti i nostri governanti. Quindi non è vero che il principio confessionista ispirò l’esposizione del crocifisso: è che l’elemento cattolico era talmente forte che lo si è considerato come un dato tradizionale, culturale e religioso. Non riconoscerlo vuol dire far torto alla realtà.
La Corte si è chiesta come «un simbolo, che è ragionevole associare al cattolicesimo (la religione maggioritaria in Italia) possa servire al pluralismo educativo».
Questo è un altro errore clamoroso, direi imperdonabile: la Corte ha visto nel crocifisso il simbolo di una parte, e quindi lo ha trattato come un simbolo partigiano. Eppure, basta guardare le bandiere degli stati protestanti per accorgersi che hanno la croce; e che nemmeno quello che sta sul vessillo inglese è un segno geometrico. Per ogni cristiano – protestante, cattolico, ortodosso – il simbolo massimo della fede è proprio la croce. La Corte, invece, ha ritenuto di poterlo individuare limitato a una parte del cristianesimo. Il che non è vero.
Esiste un conflitto tra organismi sovranazionali, che fanno leggi cui manca un procedimento di genesi parlamentare, e istituzioni nazionali, legittimate dalla rappresentanza?
CLICCA >> QUI SOTTO PER CONTINUARE LA LETTURA DELL’ARTICOLO
Sì, ed è un problema molto rilevante. Molti Stati, alcuni dei quali ammessi da poco nell’Unione, soffrono di questa «imposizione» normativa o giurisprudenziale che non ha un fondamento di rappresentatività vera. Non fa notizia, ma è in atto una discussione centrata sulla necessità di ribadire con forza il principio di sussidiarietà proprio per evitare scompensi molto forti.
Se la Corte europea respingerà il ricorso dell’Italia, che cosa accadrà? Quali le conseguenze a livello europeo?
Di per sé la sentenza immediatamente non ha un’estensività: non obbliga nessuno a far quello che dice la sentenza, salvo obbligare lo Stato a risarcire il danno subito da una singola persona. L’estensività è in prospettiva: se un cittadino ateo romeno fa ricorso e percorre tutti i gradi di giudizio in Romania per arrivare infine alla Corte di Strasburgo, può legittimamente attendersi che la Corte riproduca quel principio e quindi che anche la Romania debba togliere il crocifisso. Ma c’è anche un’altra ipotesi.
Quale?
Lo Stato potrebbe rivedere in parte la propria normativa: non potendo abolire il crocifisso il giorno dopo, potrebbe mantenerlo prevedendo, come avviene in alcuni Stati, che quando vi sono delle obiezioni serie e fondate, per esempio fatte dalla maggioranza degli alunni di una classe o di una scuola, in quel caso possa essere tolto. Questo principio vige nel concordato con l’Austria e nel Land della Baviera. Certo siamo tutti preoccupati che la Corte ribadisca il suo divieto: si aprirebbe una dialettica che speriamo di non dover affrontare.
In conclusione, che cosa l’ha più sorpresa in negativo della sentenza di Strasburgo?
L’approccio restrittivo nell’interpretare il simbolo in generale e nel descrivere una scuola italiana che non esiste. Il dato di fatto è che abbiamo il crocifisso, ma non tutti sanno – forse nemmeno in Europa? – che noi ammettiamo il velo islamico. La Corte si è rifatta a un tipo di scuola forse di fine ’800 inizio ’900, invece oggi la nostra scuola è ampiamente pluralista. È mancata la conoscenza reale della situazione italiana, che solo lo Stato italiano conosce effettivamente.
Lei è ottimista?
CLICCA >> QUI SOTTO PER CONTINUARE LA LETTURA DELL’ARTICOLO
Sul piano giuridico dovrei esserlo al cento per cento. Ma la vera preoccupazione viene da quella tendenza laicista, impalpabile ma ben presente, che ispira l’ambito nel quale viviamo, e alcuni singoli giudici più di altri. Sono però moderatamente fiducioso.
Su cosa si basano le suo aspettative?
Oltre all’Italia parecchi stati in Europa, dalla Polonia alla Russia alla Grecia al Portogallo hanno o presentato ricorso o protestato insieme alle chiese nazionali, sia cattoliche che ortodosse. La reazione è stata ampia. Questo fa vedere come siano stati toccati davvero quei sentimenti popolari profondi ai quali si riferiva il nostro Capo dello Stato.