Ieri sono rincasato in fretta e furia, dopo una giornata convulsa, per poter assistere, alla tv, alla prima messa di Papa Francesco, ma a un certo punto mi sono addormentato. Mi ha svegliato un amico: “Hai sentito l’omelia del Papa?” La sua voce era concitata, era chiaro che l’omelia l’aveva toccato profondamente. Io, invece, avevo dormito.
Niente di grave, si dirà. Pochi minuti dopo, il testo della breve omelia era già disponibile su internet. Come dire che le vergini stolte della parabola, se avessero avuto internet, avrebbero trovato l’olio per le loro lanterne, magari su e-bay, o su amazon.
Invece Dio passa e se ne va, le porte vengono chiuse e chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. L’attenzione è il primo esercizio della libertà. Il punto è: si può benissimo scegliere di non dormire. Se avevo dormito, è perché avevo voluto dormire.
“Camminare: la nostra vita è un cammino e quando ci fermiamo, la cosa non va.”
Io non ho nessuna autorità, nessuna abilitazione professionale, nessuna capacità teologica per poter commentare l’omelia di Papa Francesco, o del Vescovo di Roma, come lui preferisce farsi chiamare secondo un indirizzo che già Benedetto XVI aveva mostrato di apprezzare.
So però che le sue parole toccano il cuore della nostra esperienza. La prima delle tre parole su cui Francesco ha puntato la propria attenzione è proprio questa: camminare. Nessun fideismo: “camminare” non ha, qui, un significato simbolico, ma reale. La nostra vita non è come un cammino, è un cammino.
La natura dell’uomo è camminare, muoversi, agire, anche quando il cammino richiede una giusta violenza su noi stessi. Noi non siamo fatti per addormentarci davanti alla tv perché il centro dell’uomo non è l’uomo: la verità di noi non siamo noi. Quanti romanzi pieni di introspezione ho letto nella mia vita! Eppure nemmeno i più belli mi hanno mai persuaso, perché noi tocchiamo il fondo di noi stessi solo quando incontriamo un Altro.
Questo Altro ha un nome preciso: Gesù Cristo. Confessare Gesù Cristo, dice il Papa, è il compito della Chiesa. Non si tratta di dire “Signore, Signore”, ma di testimoniare al mondo che ciò che rende la vita bella, piena di senso, gustosa, appassionata, è Gesù Cristo. Solo Cristo ci permette di affrontare la tragedia della vita.
Senza suscitare la curiosità di conoscere Cristo, la Chiesa è (al massimo) un ente benefico, e noi cristiani siamo persone virtuose, ammirevoli, intelligenti ma addormentate, e la nostra vita non può significare niente per nessuno.
Ma, precisa il Papa, quando diciamo Cristo intendiamo Cristo crocefisso, il Suo sangue. “Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo Vescovi, Preti, Cardinali, Papi, ma non discepoli del Signore”.
Quando penso al sangue di Cristo, la prima immagine concreta che sorge in me è quella dei due pastorelli di Fatima morti bambini, Francisco e Giacinta Marto. Il culmine della vita umana sta in un “sì” come il loro, che inchioda la vita a Cristo in tutte le sue conseguenze (e rende la vita ragionevole fino in fondo).
Così è possibile – come mostra la vita dei Santi – vivere tutti gli istanti della vita in compagnia di Cristo, dal pane quotidiano all’ora della morte. Cristo non ha fatto del proselitismo, dice il Papa, ma si è fatto compagno dell’uomo. Questa è la sfida di tutte le mattine, e questa è (così mi sembra) la sola utilità di un cristiano nei confronti dei propri simili.