Caro direttore, ammazzare qualcuno per odio o per vendetta, è esecrabile certo, ma comprensibile; farlo per errore o per bisogno, forse un po’ di più; per difesa, poi, può essere persino giustificabile. Ma ammazzare per amore… e se a farlo è una madre … è così umano, direi. Esclusivamente, terribilmente, essenzialmente umano.
Degli amanti che si immolano sull’altare del loro ideale, ne sappiamo fin da quelli di Shakespeare, di Verona. In fondo è una decisione loro, forse una dimostrazione, certo terribile, sopratutto per le rispettive famiglie.
Ma delle madri che ammazzano il frutto del loro grembo: il mito di Medea insegna, guai sopravvivere, si aprono processi interminabili (quello di Cogne, ad esempio) che spalancano innumerevoli parentesi, abissi spaventosi sull’immensità dell’amore umano che spacca il petto e trabocca oltre il cervello, oltre ogni comprensione limitata. Una madre che uccide il figlio è sempre il segno di un infinito che deborda.
È notizia di ieri, di quella donna a Genova che aspetta l’avvocato, in attesa di divorzio; una mezz’oretta e poi: appoggia il biberon sul tavolino di cristallo; toglie il grembiulino a quadretti azzurri al bimbo che viene dall’asilo; toglie dalla borsa una Bibbia nera, legge ad alta voce alcuni brani; poi la posa e dritta verso la finestra aperta lancia i quattro anni che si chiamano Alessandro nel cortiletto rosso sottostante. E poi si aggiunge al volo.
Come fossero una cordata di alpinisti pazzi, il primo avanti qualche metro, il secondo che sgancia la sicura e poi trascina giù il compagno: legati gli amici da una corda artificiale, la madre e il figlio dal cordone ombelicale.
Questo mi sconcerta così tanto, come una donna possa aggrapparsi al dono che arriva con una nuova vita, se ne tenga stretta; se un bambino si prende per mano per insegnargli a camminare, se si tiene in braccio per salvarlo, per farlo sbirciare dentro un oltre che non vede, poi bisogna posarlo a terra, lasciarlo andare. Invece succede che quell’essere fragile e indifeso diventi la difesa della madre, l’unica stampella, l’unico motivo di felicità, l’ultima speranza. La sua stessa esistenza.
Suicidarsi è portare il figlio con sé: io che sono lui, lui che è ancora me.
Quando della mamma non resta niente, quando solo il figlio rappresenta il senso intero della sua vita, è allarme rosso (“se me lo tolgono, muoio”).
Rosso di vergogna per chi la ha annullata, rosso come un tramonto imminente, un cielo insanguinato. Come il pavimento del cortiletto, la macchia sul lenzuolo.
Rosso come il perdono.
“Ti perdono amore mio trasparente come l’acqua e appena impuro, perdonami di averti messo in un mondo così duro, non ci separeranno mai, non reggerai alla mia assenza, non reggerò alla presenza del reale, non ti lascerò nelle braccia del male. Nessuno ti avrà mai, ti metterò le ali e qualcuno, sì qualcuno scenderà a prenderci, a salvarci a portarci via.
Arriverà tuo padre.
Non quello che ti ha chiamato, ma quello grande, che ti ha mandato”.
Rosso come il peccato di chi non ha guardato, rovente come un’accusa, infiammato come una ferita, una coltellata.
Mi ricordo che una volta si temeva il peggio, in ospedale: aveva partorito una donna “psichiatrica”, era stata violentata, non sapeva di essere incinta, non se ne era resa conto. Quando arrivò era già in travaglio: tagliati i collant, uscì la testa, veloce, felice, sfuggita alla ghigliottina dell’aborto.
Facevamo i turni per sorvegliarla, avevamo sigillato la finestra, ci avevano avvisate: attente che non si butti col bambino. Quando glielo portate per allattare, sorvegliatela!
Mi ricordo che le porgevamo il bambino, le dicevamo che brava che sei, come è bello, vedi, come cerca il tuo seno. La tenemmo una settimana e poi, affezionate, ne chiedevamo notizie. No, lei non commise atti insani.
Qualcuno andava a trovarla, qualcuno qualsiasi, un’assistente sociale, una di noi, una del Centro Aiuto alla Vita, un infermiere dello psichiatrico, un intera compagnia che regolarmente la accompagnava. La salvava.
La guardava, lei, la sua ferita.
La staccava, come una mela dal ramo, dal suo bambino che maturava.
Perché il frutto del grembo è un figlio, ma anche la madre nasce con lui.
Entrambi hanno bisogno di nascere; e quella donna di Genova, suicida col bambino in braccio, questo solo voleva: volare e rinascere.