Ennesimo colpo di scena nel caso dell’omicidio della studentessa di Varese Lidia Macchi, il cui caso, a trent’anni dall’accaduto, è stato riaperto lo scorso anno dopo le dichiarazioni di una vecchia conoscenza, secondo la quale la lettera con cui l’assassino si autoaccusa dell’omicidio era stata scritta da Stefano Binda, ex compagno di università della ragazza. Binda si trova da allora in carcere e attualmente sotto processo, si è sempre dichiarato innocente. Adesso la nuova svolta: gli esami sui resti di Lidia Macchi, riesumati su richiesta della famiglia per procedere a un esame del dna mai effettuato in tutti questi anni, da parte dei periti nominati dal giudice (l’anatomopatologa Cristina Cattaneo, il comandante del Ris di Parma Giampietro Lago, e i consulenti dei difensori di Binda e della Procura generale di Milano) hanno rinvenuto quattro capelli che non risultano appartenere né alla vittima né a Stefano Binda.
OMICIDIO LIDIA MACCHI, STEFANO BINDA E’ INNOCENTE?
Sono stati classificati come “di ignoto”. “Periti e consulenti sono giunti alla stessa conclusione: i capelli non appartengono a Binda e non si sa di chi siano”, commente uno dei legali di Binda, l’avvocato difensore Patrizia Esposito. L’imputato si è dichiarato soddisfatto del risultato, sottolineando che questo prova la sua innocenza, ma ovviamente non è detto che lo sia. I capelli potrebbero essere di chiunque altro abbia avuto dei contatti con la ragazza nel suo ultimo giorno di vita o anche dopo la morte. Certo è che il caso rischia di chiudersi con un nulla di fatto: mai trovata l’arma del delitto, mai ottenute testimonianze decisive. Un cold case che appare destinato a rimanere tale e che per certi aspetti ricorda il caso di Yara Gambirasio dove, pur essendoci stato un condannato, non sono mai in realtà emerse prove schiaccianti per definirlo il colpevole.