Giunge ad un triste epilogo la vicenda di Charlie Gard, il piccolo neonato britannico affetto da una malattia mitocondriale molto rara dinnanzi alla quale i medici hanno pronosticato morte certa, mentre i genitori hanno vagliato qualunque via legale per poterlo tenere in vita. L’ultima carta l’hanno giocata alla Corte europea dei diritti dell’uomo che ha, dapprima, deferito la decisione e poi, nella serata di ieri, accolto le conclusioni del personale medico inglese e sentenziato che Londra può portare avanti le procedure per interrompere quello che la giustizia di Sua Maestà ha definito un accanimento terapeutico foriero solo di inutile dolore.
La domanda che tocca farsi è però molto diversa da quella che ha animato tanti dibattiti di questi mesi. Non importa, infatti, sapere chi ha ragione, quanto comprendere che tipo di problema Charlie sollevi nella nostra vita. Non si tratta di un problema legale, ossia di determinare fino a che punto le leggi degli stati possano spingersi nella vita degli uomini. Infatti le leggi, in questo caso, regolano atteggiamenti, comportamenti e azioni che vengono prima della legge stessa. Non è neppure un problema di libertà della famiglia: molte famiglie compiono scelte libere ma sbagliate per i loro figli e idolatrare la libertà della famiglia di Charlie oggi, solo perché coincide con quello che si pensa, potrebbe essere deleterio domani, quando magari dovremmo decidere se una famiglia può alimentare in modo vegano un neonato privandolo dell’apporto fondamentale di alcuni nutrienti.
Tutte queste cose sono per esperti, per tecnici che non mancheranno — anche su queste stesse colonne — di fornire i loro pareri e i loro punti di vista. La storia di Charlie è al contrario un problema di realtà e la questione che pone Charlie è il fatto stesso che lui c’è, esista. Mai come in questo caso possiamo toccare con mano che cos’è che ferisce davvero la nostra vita e il nostro amor proprio: il fatto che una cosa, che le cose, ci siano. Charlie è una persona viva, presente, la cui stessa esistenza risulta intollerabile non a lui, ma a chi tutti i giorni deve incrociarne lo sguardo.
Come una moglie, un marito, un collega, un figlio, una madre o un vicino di casa, è il fatto che egli sia che ci tormenta e che ci costringe a metterci in discussione. Charlie non è quello che ci aspettavamo, non è il bambino delle pubblicità, non è l’ideale di figlio che i genitori sognano quando mettono la testa e il cuore sul proprio futuro, ma è quello che c’è, quello che esiste. Più lui permane, più la nostra impotenza come medici e come adulti permane, più lui ci pone un problema, ci pone delle domande, ci sfida. Siamo così presi dalle nostre idee, dalle nostre opinioni, che non possiamo tollerare che qualcosa persista e continui a disturbarci.
Lo vogliono togliere di mezzo. Non le leggi dei giudici inglesi, non i pareri dei medici, ma il cuore degli uomini. I genitori, in tutto questo, non chiedono altro che attendere, che aspettare, che lasciare aperta una porticina, uno spiraglio, alla speranza, alla luce, all’esistenza. Ma si creerebbe troppo imbarazzo se lui, con la sua resilienza, continuasse a vivere, a lottare, a rimanere, si creerebbero costi, rebus collaterali, nuove diatribe. Quella vita, insomma, va eliminata perché disturba. Essa mette troppo in gioco le dinamiche, le strutture e i processi del nostro tempo. E c’è da giurarci che i fedeli garanti della giustizia lo faranno, lo faranno presto, nel giro di poche ore. Senza alcuna compassione, senza alcuna pietà. Col solo desiderio di togliersi dal cuore il dubbio, l’ombra, che Charlie continua a insinuare con la sua esistenza. E se fosse vero? E se la vita non fosse solo nostra?
Non c’è tempo, bisogna agire. E come Caino di ritorno dai campi, a chi dovesse chiedere conto di quanto accaduto si potrà sempre rispondere con una punta di sdegno: “Sono forse io il custode del mio fratello?” oppure, usando parole ben più macabre e più contemporanee, ribadire che – in fondo – “si sono solo eseguiti gli ordini”.