La donna di 46 anni che si è ferita gravemente dandosi fuoco mentre era in fila all’Inps di Torino potremmo essere tutti noi. Noi tutti, infatti, attraversiamo momenti di scoramento che l’indifferenza altrui trasforma in attimi di rabbia e panico che, sentiamo, potrebbero sfociare in atti estremi.
La linea di confine tra ragione e follia si assottiglia fino a scomparire. Poi pensiamo a una persona cara — un figlio, un fratello, un genitore — e rientriamo in noi. Magari spaventati da quello che ci è passato per la mente. Oppure lusingati di sapere, adesso, di essere capaci proprio di tutto.
Quale che sia la ragione del nostro impazzimento — nel caso concreto sembrerebbe la perdita del lavoro che apre alla prospettiva di una dura povertà — è la sensazione o la certezza dell’ingiustizia subita ad eccitare il diavolo che s’impossessa della nostra mente e guida le nostre azioni.
Perché proprio a me?, si sarà chiesta l’inserviente lasciata a casa dal datore di lavoro che ristruttura l’azienda e affida a terzi il servizio di pulizie. Perché il sussidio mi è stato sospeso quando le mie colleghe continuano a percepirlo? Perché tutti rispondono con fastidio alle mie domande?
Piuttosto che essere una Repubblica fondata sul lavoro l’Italia è da un pezzo diventata una Cosa edificata sul pezzo di carta incardinato in una procedura che non sempre risponde a criteri di buon senso e troppo spesso si perde in una teoria di eccezioni che richiede soldi e tempo fronteggiare.
Una firma mancata, un termine non rispettato, un fregio sbagliato non sono peccati veniali che è possibile perdonare e correggere di fronte a pretese nella sostanza corrette, ma diventano gravi colpe suscettibili di annullare tutti i diritti o di rimandarne l’esercizio alle calende greche.
Disgraziato è quell’uomo che si trova a combattere contro il muro di gomma di una burocrazia concepita per rifiutare ogni compassione. Organizzata per premiare chi non agisce (un buon motivo si trova sempre) mentre punisce chi arditamente cerca una soluzione.
Chiunque abbia avuto la ventura di venire a confronto con il ventre molle della pubblica amministrazione conosce bene quella sensazione d’impotenza che monta di fronte a comportamenti improntati al più assoluto disinteresse per il problema che noi avvertiamo (e a volte è) enorme e urgente.
Un gesto di comprensione, una parola di conforto, un’assunzione di responsabilità potrebbero rendere l’esistenza assai più leggera e frequentabile di quanto non sia diventata in questa epoca fragile condizionata dall’ansia di perdere posizioni e di non poterle più recuperare.
Chi è fuori dalla giostra che si arrangi. Urli pure con quanto fiato ha in gola, nessuno ascolterà. Ciascuno è preoccupato di mantenersi in vita e peccato per chi non ce la fa. Per avere l’attenzione negata, per farla pagare col rimorso a chi crediamo abbia voluto umiliarci, non resta che affrontare il martirio.
Naturalmente e per fortuna si tratta di eccezioni. Gli indici indicano che la fiducia aumenta e questa è una buona notizia. Ogni rivoluzione che si rispetti, si dice, deve fare le sue vittime. Ma non è detto che debba andare sempre così. A fare la differenza potrebbe essere chiunque di noi.