Dominika aveva diciassette anni, frequentava un istituto professionale a Monterotondo, presso Roma. Era una bella ragazza, prendeva ottimi voti. Per questo il preside della sua scuola non riesce a capacitarsi del perché questa ragazza bella e brava abbia rubato dalla palestra una corda per saltare e si sia impiccata nel bagno della scuola.
Era bella e brava, e magari anche buona. Ma adesso Dominika non esiste più, e il suo preside, giustamente, non sa darsi pace. Non la rivedrà più entrare in scuola, non rivedrà più il suo sorriso, non riascolterà più la sua voce gentile. E poi la tragedia si è consumata tutta dentro la scuola, come a suggerire che lì, proprio lì, sta in un modo o nell’altro la radice del problema.
Ho imparato a non fidarmi troppo dei biglietti che i suicidi lasciano ai posteri. Come c’è molta menzogna nell’atto in sé, così è probabile che ce ne sia anche nelle loro parole.
Due elementi tuttavia emergono da una prima osservazione del fatto. Non so se c’entrino qualcosa con la vera causa della morte della povera Dominika, però bisogna osservarli bene.
Il primo è riportato proprio sul biglietto lasciato dalla ragazza, e parla dell’amore di Dominika per un ragazzino più piccolo di lei, che però a quanto sembra le preferiva un’altra.
Il secondo elemento riguarda la mania di Dominika per le diete. Ultimamente era un po’ ingrassata, e questo le faceva terrore.
Magari allora potrei mettermi a parlare, come farebbe un qualsiasi commentatore, del disagio giovanile, della crisi di modelli, della schiavitù mediatica, della solitudine dell’adolescenza. Potrei mettere in luce il nesso tra questi due elementi osservando che il disperato attaccamento di Dominika a un ragazzo più piccolo di lei costituiva per la ragazza un tentativo di identificarsi con un modello fisico al quale temeva di non poter appartenere mai più.
In altre parole, in quel ragazzino privo nel nostro caso di qualunque importanza lei cercava sé stessa. Ma lei non sarebbe mai più rientrata in un corpo così, perché ora il tempo aveva cominciato a batterle dentro le orecchie, e le suggeriva le stesse cose che suggerisce a tutti noi: che la gioventù finisce, che diventeremo grandi e poi vecchi (forse), e saremo brutti e indesiderabili, e ci faremo rifare naso labbra tette ma non servirà a nulla.
Può darsi che questi pensieri, come spesso accade, inducessero la ragazza a studiare di più e meglio, a capire più in profondità i testi di letteratura assegnati dalla prof, e quindi a meritare bei voti. Questo per dire che un bel voto di solito non è segno di niente. Almeno io la penso così.
Ma c’è qualcosa di molto più importante, un’osservazione molto più grave, alla quale non può sottrarsi nessuno: né il preside di Dominika, né i suoi insegnanti, e nemmeno tutti noi.
La cosa importante è che tutto quello che sappiamo del modo di pensare di Dominika ha a che fare con una parola che dovrebbe mettere paura come la morte: la parola “astrazione”. Perché è possibile gettare via tutta la vita (se ci penso mi viene la pelle d’oca!) avendo sempre e solo a che fare con modelli astratti: la bellezza fisica, la giusta alimentazione, l’amore ideale, e via via di questo passo fino allo scolaro modello, all’impiegato modello, al successo sul lavoro, alla vittoria nello sport, al potere (per quanto piccolo, quando non infinitesimale).
Diventare prigionieri di un’idea astratta di sé stessi e del mondo è facilissimo. I più riescono a vivacchiare in quel limbo per tutta la vita, qualcuno invece si perde e muore.
Allora presidi e insegnanti – dico di loro per dire di noi tutti – devono cominciare a chiedersi se insegnare significa solo conoscere e trasmettere una data materia o se, insieme a questo (ma in un certo senso prima di questo) non sia loro dovere, verso i ragazzi ma anche verso sé stessi, di insegnare che niente si conosce se il punto di partenza non è la nostra esperienza concreta, fattuale. Ma un professore si rende conto che nel suo modo d’insegnare si decidono la vita e la morte?
Un teorema matematico, un romanzo, una teoria economica sono sempre la risposta a una domanda. E la domanda è sempre una domanda concreta, legata al concreto dell’esperienza.
Cosa vuol dire essere giovani? Cosa vuol dire amare qualcuno? Le menti dei ragazzi vengono rapite dai modelli astratti di “gioventù”, “bellezza”, “amore” prima che nella loro vita concreta, prima che nel loro corpo, nel loro cuore e nella loro mente queste stesse cose si possano trasformare in domande personali. Rendiamoci conto che un ragazzino oggi sa già cos’è uno stupro quando ancora non sa cosa sia un atto sessuale.
All’inizio di ogni vita sana c’è il rapporto con la realtà. Da questo rapporto sorgono domande, spesso dubbi, interrogativi pieni di speranza ma anche angosciosi, fino alla ricerca, fino al pensiero speculativo, fino ai vertici dell’arte.
Quello che mi preoccupa è che, per le generazioni giovani (e anche per quelle non più giovanissime) la realtà, anziché essere il punto di inizio della conoscenza, sembra essere diventata qualcosa di irraggiungibile, un’isoletta lontana persa nella nebbia.
Quando sento parlare di “eccellenza” e di “merito” a proposito del futuro della scuola (e dell’università) mi viene il vomito. Ci si illude di porre rimedio alla voragine educativa continuando a farcire, a rimpinzare le povere teste dei ragazzi di contenuti su contenuti. Ma se non c’è quel punto di partenza, ben radicato e sempre richiamato, non è difficile prevedere che ad accaparrarsi l’”eccellenza” e il “merito” saranno o i più furbi – quelli cioè che sanno stare al gioco – o i più stupidi – quelli che non hanno capito che esiste un gioco.
Qualunque sia la causa della morte della povera Dominika, quello che è certo è che è stata devastata da un macigno fatto di astrazione, e che la scuola non può fare spallucce dando la colpa alla tv e alle mode fregandosene del fatto che, spesso, il suo modo di presentare i contenuti è peggio della tv e delle mode.