Il Pil non è sufficiente per definire il livello di benessere o il progresso di uno Stato. Una verità nota da tempo, condivisa da sociologi ed economisti; ma che, finora, non ha ancora trovato reale applicazione. Ad oggi, infatti, il primo Paese ad avere fatto un passo concreto in avanti in questa direzione è il Regno Unito. L’indice della felicità, non a caso, è da sempre uno dei cavalli di battaglia del premier David Cameron. Che lo scorso novembre aveva dato mandato all’istituto di statistica inglese di stilare una serie di domande da sottoporre ai cittadini per prendere in considazione nuove categorie. «Se questo sondaggio serve a mettere a fuoco degli indicatori che si aggiungano ad altri di tipo quantitativo, può avere un senso; se, invece, si basa prevalentemente su indicatori di tipo soggettivo, invece, no», è l’opinione di Luca Pesenti, docente di programmazione del welfare locale all’Università Cattolica di Milano interpellato da ilSussidiario.net. Le domande, in effetti, non sembrano suffragate da precisi criteri scientifici. Si chiede di indicare il livello di soddisfazione su una serie di fattori come il rapporto col proprio coniuge, il proprio lavoro, il rapporto coi vicini, la sicurezza del proprio quartiere, e il proprio livello di istruzione. «Il pil – spiega Pesenti – viene utilizzato come indice per determinare la crescita o la recessione di un Paese. Si tratta di un indicatore molto serio, in grado di orientare fortemente i mercati e la psicologia dell’opinione pubblica. Sintetizza lo stato di benessere di un Paese». Tuttavia, è ben lungi dall’essere esaustivo «L’idea di andare alla ricerca di qualcosa di diverso dipende dal fatto che si limita ad una mera dimensione economica. Basti pensare alla Cina, dove è evidente come il Pil, nonostante l’enorme crescita, non rispecchi il benessere dei cittadini». Secondo Pesenti, «se si vuole individuare una misura alternativa che riesca a dire se una popolazione stia meglio o peggio rispetto all’anno precedente occorrono, in ogni caso, dei valori oggettivi e quantitativi, come il tasso di scolarizzazione, la speranza di vita, l’indicatore di povertà, il tasso di risparmio, il livello di disoccupazione, la percentuale di divorzi».
Il questionario del governo inglese, quindi, non va bene. «In tal senso – aggiunge -, oltre ad essere soggettive e qualitative sono caratterizzate da una tale genericità che non si capisce quale effetto possano sortire». Non significa che il lavoro svolto sia da buttare via. «Quantomeno, con Cameron, siamo al primo tentativo compiuto di tenere conto del progresso di un Paese non in termini esclusivamente economici».