Caro direttore,
il risultato delle elezioni 2018 non è poi così sorprendente. Quello che si evince, secondo me, è la conferma di qualcosa che, aldilà delle connotazioni italiane, esprime ciò che è in atto in varie parti del mondo in varie forme.
Non è soltanto questione di malcontento in chi ha votato o di indifferenza per chi non lo ha fatto. A me pare che per molti sia nel quotidiano — lavoro, famiglia, convivenza sociale etc. —, sia nella politica quanto nell’economia ci sia il tentativo, neanche tanto nascosto, di percorrere una strada dove al centro c’è più una convenienza organizzativa (le cose devono funzionare, le persone devono avere diritti, lo Stato deve controllare, etc.) che non una convenienza umana (e qui il campo non è misurabile perché l’umano è capace di infinito).
La caratteristica di questa strada è quella di separare le persone come in un arcipelago, dove le distanze aumentano progressivamente e le voci e i volti diventano indistinguibili. Una massa incolore che si parla tramite il digitale ma che sempre meno ha l’esperienza della carne, del volto, della voce.
E’ un paradosso, perché sembrerebbe, carichi come siamo di suoni, rumori e immagini, che tutto divenga unito e coeso. Ma è un gioco di specchi. Tante piccole verità per dire una grande menzogna. Il secondo paradosso è che quelli che banalmente potremmo a questo punto identificare come i vincitori, i prossimi “burattinai”, sono ingenuamente vittime essi stessi di una cultura generata da ambienti che oggi hanno nei loro pronipoti i perdenti principali. Quindi i vincitori sono creature nate speculari alle forze che hanno combattuto ma con identica radice.
Il lavoro fatto in questi ultimi tempi grazie a tutti quelli che ci hanno aiutati a tenere desto lo sguardo, cercando di forzare la poca voglia di andare a votare, com’era nel sottoscritto, potrebbe sembrare, alla luce dei risultati, perduto sotto la superficie dell’acqua. Io credo invece che quando l’orizzonte sembra quello di una sconfitta o di qualcosa di peggio in arrivo, metta in evidenza la nostra faccia e di che cosa siamo fatti. Come la figura di San Francesco, che si spoglia di tutto per vivere la totalità di Chi tutto può riempire. Credo che siamo chiamati a una povertà tale da rendere i nostri volti identificabili con i nostri nomi e la nostra voce.