Nella sua sobrietà e nitidezza l’intervista di Mons. Nunzio Galantino a Radio Vaticana fa piazza pulita sugli equivoci di tenuta dottrinale della Chiesa di Francesco sulla spinosissima questione dei matrimoni gay e più in generale della teoria del gender. Una frontiera antropologica, prima ancora che teologica, su cui la Chiesa ha acceso da tempo i riflettori perché tutti — laici e cattolici, credenti e non credenti — ci si ragioni su nella salda convinzione che la tutela della famiglia naturale, e del nesso sessualità/filiazione che la natura àncora alla coppia eterosessuale, è un dato di ragione su cui può convenire ogni ragione ragionevole, e non un articolo di fede che abbia bisogno di dogmi; difficili da proporre a chi non li condivida per altra o nessuna credenza religiosa.
E non a caso Mons. Galantino tiene a sottolineare che la Chiesa si sente pienamente allineata, di fronte a proposte legislative che questa difesa o affermazione incrinino, alla Carta costituzionale italiana. Sostenere quindi che il documento non vincolante dell’Europa, per altro approvato — come Galantino ricorda — con larghi dissensi, sul riconoscimento delle famiglie gay, risponde allo spirito del tempo, più sinteticamente che è una proposta che esprime il sentire di questo tempo, che bisogna sforzarsi di capire, non significa affatto assentire a questo sentire. Anzi.
Il punto che sfugge ad alcune posizioni nel mondo cattolico, preoccupate di un eccesso di dialogo con questo sentire, è che comprendere le ragioni di questo “sentire del tempo” le ragioni è presupposto fondamentale di un dissenso ragionato e ragionevole che la Chiesa cattolica sia capace di mettere in campo per arginarne improvvidi “riconoscimenti” legislativi. In una società plurale nei suoi valori e, doverosamente, nel suo discorso pubblico e politico — qualcosa di cui è difficile sensatamente dolersi —, quel che serve non è un esprit de géométrie che costruisca difese dottrinali, giuridiche e politiche, ma un esprit de finesse che capisca ragioni e sappia proporre le proprie ragioni come più accoglienti e rispettose dell’umanità di tutti; che costruisca ponti e non trincee.
Un esprit de finesse, per cui la Chiesa è matura almeno ormai dal Concilio. Che ha sempre più fatto avanzare l’intuizione giovannea del magistero di umanità della Chiesa, che dietro ogni sentire, per quanto erroneo, per quanto fuori da una verità buona per se stessi e per la società, c’è sempre una persona, che nei suoi bisogni umani non è mai “sbagliata”, e nella sua umanità non è mai figlia di un dio minore, di un “guasto” della natura da “raddrizzare” con i valori giusti. Questo è un sentire che è fuori del tempo, e che non ha più tempo. E rischia di essere immemore della grande lezione paolina, che la pienezza della fede non può essere vuota di carità.
Una lezione che in una società aperta, che per tanta parte vede una crisi delle stesse evidenze dell’umano su cui per secoli si è appoggiata la società cristiana, è sfidata a questo esercizio di carità non solo più tra fratelli nella fede, ma in una fraternità umana da ritrovare in un paesaggio morale che per ridurre a unità devi esser capace di vedere, dietro le fedi e i valori, l’unico uomo per cui è venuto l’Unico Dio cui credono i cristiani.
Il compito è impegnativo. D’altro canto, se non lo fosse, la Chiesa non parlerebbe da tempo di rievangelizzazione, della difficoltà di dover riportare l’annuncio cristiano a società che se sono sganciate, “immunizzandosi” per certi aspetti dalla sua fascinazione di “novità”, di cui bisogna saper far tornare la nostalgia. E qui davvero è solo la carità, la capacità di accogliere gli altri, altri anche nei valori, che può invitarli a guardare alla nostra fede, a sentirsene sfidati, interpellati; non il farsi precedere dai nostri valori. Ciò che viene prima è chi ti accoglie. Chi ti insegna viene dopo. Per essere capaci di dare ragione della propria fede, come voleva Pietro, la Chiesa tutta deve sentirsi impegnata in questo sforzo, senza disunirsi in scomuniche reciproche, e in nome della pienezza della (propria) fede perdere quella gara nello stimarsi a vicenda a cui Paolo invitava la comunità “romana”.
Vedere sui blog venir meno la stima reciproca tra coloro che custodiscono gli stessi valori, come lamenta Galantino, fa male innanzi tutto alla causa di quei valori. E scambiare un blog per le porte di una moderna chiesa di Wittemberg (senza essere Lutero) non è il modo più indicato per essere sobri e uniti in un momento così delicato per chi ha a cuore valori fondamentali — la famiglia, la vita, il rispetto e la dignità delle persone — per la comunità cristiana.