“E se non piangi, di che pianger suoli?” Le parole di Dante sembrerebbero bastare, da sole, a descrivere meglio di tante altre la storia del camionista che si è dato fuoco ieri davanti al Quirinale. La storia di un sacrificio estremo, la storia di un uomo che sembra condensare in sé tutte le caratteristiche della vittima sacrificale ideale. Straniero – per la precisione romeno, nella percezione pubblica pressoché il peggiore straniero possibile; di mezza età – cinquantacinque anni, la stessa età di tanti degli “esodati” alla ribalta delle cronache politiche degli ultimi mesi; padre con famiglia a carico – “mia figlia sogna in italiano”, ha dichiarato l’uomo in uno dei video nei quali ha più volte lamentato la sua condizione, per sottolineare la sua appartenenza al nostro paese. E infine malato e discriminato dall’impresa che lo ha assunto nel ’99 e, a quanto ha dichiarato l’uomo, vittima di mobbing da almeno tre anni, fino al licenziamento.
Una storia emblematica, in tempi di crisi economica: tempi che, dopo tante ubriacature da new economy e da “ozio creativo”, hanno riportato al centro della scena pubblica il lavoro. Ma il dramma del camionista non è semplicemente un dramma della crisi: è un dramma del lavoro tout court, nella sua inestricabile connessione con la vita. Arrivare a rischiare la morte per riguadagnare questa vita, per dichiarare il proprio diritto a viverla, può apparire un paradosso solo a chi non abbia ancora chiara la connessione. Ma per stabilire una connessione simile, bisogna sottrarre tanto il lavoro quanto la vita alla retorica corrente, e riflettere più in profondità.
Quale impresa può esserci dietro una storia del genere? Quali colleghi possono aver assistito allo sviluppo progressivo della vicenda, fino alla tragica conclusione? Quali ragioni possono aver sostenuto la decisione finale del datore di lavoro? Quale organizzazione può aver rigettato come insostenibile il comportamento dell’uomo, fino a espellerlo come un corpo estraneo. Molto più che la narrazione diffusa sulla crisi, sono queste le domande che meritano di essere poste: domande che interrogano la nostra idea di impresa, di organizzazione, di attività lavorativa, un’idea che deve produrre i suoi effetti tanto in tempi di vacche grasse quanto di vacche magre.
Fare dell’imprenditore che ha licenziato il camionista un novello conte Ugolino non aiuta a capire; interpretare la vicenda in maniera astratta, prescindendo dalla condizione concreta in cui le aziende e i lavoratori si trovano oggi nel nostro paese non serve per prevenire, per evitare che tragedie simili possano mai più ripetersi.
Non possono bastare l’indignazione o la condanna, almeno quanto non possono l’indifferenza o la giustificazione. Nella storia del camionista risuonano fin troppo alti l’isolamento, il silenzio, disperazione: mentre della comprensione, del confronto, della solidarietà non si avverte neppure una eco lontana. Possiamo ancora permettercelo, specialmente in tempo di crisi? Dopo aver versato tutte le nostre lacrime, vale la pena di chiedercelo.