L’espressione “fake news” sta diventando sempre più di moda, facilitata dalla tendenza ad utilizzare espressioni in lingua inglese, più o meno adattate, ed anch’esse molto “fashion”. Inoltre, un’occasione in più per mettere in discussione internet e i “social”, assurti a connotati principali dell’epoca in cui viviamo. Questi mezzi hanno un’indubbia capacità di volgarizzazione delle notizie, nel senso positivo di rendere diffuse e a portata più generale le notizie e, più negativamente, di renderle anche banali, superficiali o, addirittura, artefatte.
Questa capacità di generalizzare l’informazione non ha reso internet una fonte autorevole, come un tempo furono la stampa e poi la televisione. I più anziani ricorderanno certamente come l’incredulità di fronte a una notizia veniva sopraffatta da un perentorio ” era sul giornale”, tanto più autorevole se attribuito ad alcune testate come il Corriere della Sera, non a caso chiamato il “Corrierone”. Espressione poi sostituita da un “l’ho sentito in televisione”, peraltro meno definitivo del precedente, mentre ora ci si limita per di più a un “l’ho trovato su internet”. La possibilità di immediato confronto, per chi lo vuole, tra diverse fonti porta difficilmente a una conclusione unica, persino per le previsioni del tempo. L’autorevolezza, spesso l’unicità, delle fonti di informazioni di un tempo non significava di certo l’assenza di “fake news”, al contrario, ma solo una minoranza poteva cercare di controllarle, leggendo più quotidiani o guardando più telegiornali.
Un settore da sempre contrassegnato dall’abbondare di “fake news” è la politica e non solo per le promesse elettorali, sovente ascrivibili a veri e propri manuali di fantapolitica, ma ad esempio per la geopolitica. Attualmente il termine viene particolarmente utilizzato per Trump e Putin e, a proposito di quest’ultimo, si sta rispolverando un’espressione molto in uso durante la Guerra fredda: la disinformacija sovietica, un livello qualitativamente superiore di propaganda. Chi ha vissuto quel periodo sa benissimo come anche l’Occidente abbia usato ampiamente quello strumento e abbia continuato ad usarlo. Si pensi solo alle “prodezze” della Cia e ben prima dell’avvento di Trump. Niente di nuovo sotto il sole, quindi, ma vi è un altro aspetto interessante relativo all’uso di stereotipi che diventano rapidamente slogan e parole d’ordine che esentano dal cercare di capirne il reale significato.
E’ il caso del termine “populismo” per designare ogni posizione che si ponga contro l’ordine stabilito; infatti questi movimenti sono anche definiti antisistema, ma non rivoluzionari, definizione apparentemente meno denigratoria riservata all’estrema sinistra, essendo l’estrema destra solo sovversiva. Anche le definizioni, come le leggi, si applicano ai nemici ma si interpretano per gli amici, così i grillini sono visti come una minaccia al sistema, mentre Matteo Renzi, autodefinitosi “rottamatore”, viene posto a capo del governo, cioè del sistema. Disclosure, come dicono gli anglosassoni: il discorso riguarda solo l’uso delle parole e non i contenuti delle varie posizioni, avvertimento che vale anche per le prossime dissertazioni.
Un altro caveat molto in voga riguarda l’islamofobia, che rischia di scalzare dal podio quello sull’omofobia: di fronte a un attentato di matrice islamica, accanto alla condanna del fatto e al cordoglio per le vittime, viene immediatamente avanzato il timore di un uso islamofobo dell’accaduto. Se poi gli autori dell’attentato sono islamici nati o residenti nel Paese sotto attacco, scatta immediatamente l’autoaccusa alla nostra incapacità di integrazione e si scopre, magari, che l’Europa sta precipitando in un vuoto circa la propria identità. Inevitabile domandarsi perché altri non integrati o emarginati, diciamo sudamericani o slavi, si “limitino” ad atti esecrabili, ma più “normali”, virgolettati dovuti, come derubare vecchiette, saccheggiare ville o assaltare negozi e banche. Invece i disadattati islamici mettono bombe in giro massacrando civili inermi, manco fossero le vecchie Brigate rosse o nere, o sanguinari clan mafiosi. Un discorso complesso che richiede un approfondito esame della crisi in cui si dibatte il mondo attuale, occidentale, islamico e non solo, ma che è troppo comodo e anche un po’ vile oscurare con il mantra dell’islamofobia.
Un’ ultima osservazione. In questi nostri tempi la religione più perseguitata è quella cristiana e gran parte di questa persecuzione è ad opera di soggetti o governi musulmani. Sarebbe perciò oggettivamente più vicino alla realtà denunciare la sempre più diffusa e concreta cristianofobia, tanto più che non si ha notizia di estremisti che fanno saltare in aria discoteche o scagliano autocarri sulla folla inerme in nome di Gesù Cristo.