Alla fine glie l’ho chiesto: faccia tosta e sguardo dritto. “Santo Padre ci fa il dono di chiedere al suo medico cosa le dà? Noi arranchiamo, ci affanniamo a correrle dietro e Lei è sempre in superforma”. Mi guarda prima basito, forse per decifrare il mio contorto ragionamento, poi sornione: “Ma io non vado dal medico, vado dalla strega”. Diavolo di un Francesco. Esce sempre dall’angolo, anche quando lo sorprendi nel giro saluti ad alta quota, sul Boeing 777 che lo porta a Santiago. La capitale del Cile è la prima tappa della visita in America Latina, l’altra sarà il Perù. Paesi che lui stesso ammette di conoscere bene, avendoli frequentati da giovane studente gesuita, poi provinciale e infine da vescovo. Certo in Cile conta più di un amico oltre a molti ricordi, come quando con i compagni dell’anno vissuto nella casa di formazione alla periferia di Santiago si divertiva a definire il Cile “una striscia di terra lunga e stretta, aggrappata alle montagne per non cadere nel mare”.
Gli aneddoti li affida allo spagnolo, lingua che nei prossimi giorni gli consentirà disinvoltura ed empatia con i fedeli accorsi da ogni dove per abbracciarlo. 21 i discorsi previsti nella settimana a venire, ma sembra non pensarci mentre in coda all’aereo si intrattiene con corrispondenti, fotografi e cameramen chiacchierando, dispensando benedizioni e facendo incetta di regali. Ammazza il tempo interminabile di un volo, per sua stessa ammissione noiosissimo, di oltre 15 ore. Le prime delle 42 che passerà in volo nel suo ventiduesimo viaggio internazionale. E finisce per dare anche qualche informazione, mettendoci al corrente che quella per Santiago è la tratta più lunga per l’Alitalia, la compagnia di bandiera che ha sempre l’onore di portarlo a destinazione. Ma parlottando e salutando, tra battute e pacche sulle spalle, autografi e selfie, finisce anche per rispondere a una domanda in anticipo sulla consueta conferenza stampa prevista per il volo di ritorno.
La collega del Messaggero gli chiede se ha davvero paura di una possibile guerra nucleare. Francesco non esita, e come ribadito solo otto giorni fa al corpo diplomatico riunito nella Sala Regia del Palazzo Apostolico, risponde che siamo al limite. “Ho paura che anche un semplice incidente possa scatenare una guerra nucleare. Di questo passo non si può non far precipitare la situazione”. Un pontefice spaventato, dunque, convinto più che mai che il disarmo nucleare sia improrogabile. “Bisogna distruggere le armi”, chiude secco la conversazione, prima di passare a un altro volto e a un’altra storia. Eppure nei suoi occhi deve esserci ancora lo sguardo del bambino giapponese con il fratellino morto sulle spalle, ripreso nel ’45 in uno scatto drammatico e seppiato, da Joseph Roger O’Donnell, fotografo americano. Era davanti a un forno crematorio, nella Nagasaki appena bombardata dall’atomica.
Il Papa ha scelto quel ritratto vergato da poche parole di suo pugno “…il frutto della guerra”, per ricordare, poco prima di Natale, cosa c’è in gioco. L’ha voluta ridare anche a noi, quell’immagine. Non nasconde di essersi commosso quando l’ha trovata per caso. Poi la decisione di farla stampare e distribuire, perché, ha spiegato, un volto segnato dal dolore dice più di “mille parole”. Potrebbe essere il motto del pontificato quanto è vero ciò che dice il Papa dei gesti e della consolazione, pronto ad affrontare l’ennesima sfida in un Paese che fino a poche ore dal suo arrivo dava fuoco alle chiese e occupava sedi diplomatiche in segno di protesta per l’invito al successore di Pietro.
Sarà una bella sorpresa per tutti, cileni e non, mettersi alla scuola di Francesco, l’uomo del dialogo e dei ponti: guardare prima di giudicare, condividere per amare.