Un omone nero sul ring saltella intorno all’avversario e poi, all’improvviso, tira un colpo poderoso, e l’altro cade giù. Ero solo una bambina ma il ricordo è ancora vivido. Sono gli anni Settanta e lui è Cassius Clay, il boxer dal carattere strabordante che il ring non può contenere. Perché Cassius Clay, o Muhammad Ali, è stato forse il primo a essere una personalità oltre che uno sportivo, attuando un inconsapevole marketing di se stesso ante litteram.
Float like a butterfly, sting like a bee è il mantra che lo accompagna nella sua carriera fatta di pugni e frasi divinatorie pensate ad hoc per stendere gli avversari.
Come spesso succede ai predestinati, la carriera di Muhammad Ali prende l’avvio non tanto, o non subito, per una spinta interiore ma per un evento fortuito. Quando si accorge che la sua nuova bici rossa è stata rubata, denuncia il furto a un agente (Joe Martin) che guarda caso allena pugili nella sua palestra. “Se trovi il ladro e vuoi ammazzarlo di botte devi prima imparare a tirare un pugno”, questo gli avrebbe detto Martin e siamo tutti testimoni di come Cassius abbia preso seriamente il consiglio.
Nonostante i risultati scolastici poco confortanti, la sua lucidità e la mancanza di filtri rendono Muhammad Ali un personaggio senza sfumature: sembra dire o mi odi o mi ami, e se mi odi è un tuo problema. Questo deve essergli stato ben presente quando, dopo l’inaspettata vittoria alle Olimpiadi di Roma (1960), per la stampa estera è un gladiatore ma una volta a casa diventa un “negro olimpionico”.
Il fatto che il colore della sua pelle non fosse una preoccupazione per lui ma per gli altri ne fa un personaggio concentrato sul succo della vita, la sua. Nell’intimo Muhammad Ali sente di essere il più grande, come lo ricordano sul sito del centro Muhammad Ali fondato nella sua città natale (Louisville, Kentucky). Questa convinzione scorre nel suo sangue prima ancora di arrivare sul ring e diventare the Greatest anche per il pubblico, in una trasposizione pratica del detto volere è potere.
Forse proprio la mancanza di un “ammaestramento” accademico gli rende possibile essere sempre se stesso e dire quello che vuole, anche quando si allea con gli sponsor milionari della sua città, che lui vede come bianchi con i giusti contatti per la strada giusta.
Ma chi era davvero Cassius Clay? Simbolo di pacifismo per neri e bianchi, lui, che aveva gonfiato di pugni tanti avversari, era una somma di contraddizioni. Un bambino imprigionato nel corpo dell’uomo che si mette a ballare sul ring contento e leggero, dopo aver battuto il campione Sonny Liston, ma anche l’atleta che non vuole avere niente a che fare con chi non riconosce i suoi diritti di nero ma pretende di mandarlo a combattere contro i Vietcong.
E’ un grande narcisista, perfetto testimonial della supremazia nera, che non perde occasione per offendere il suo nemico Joe Frazier, nero come lui, ma è anche il campione mondiale dei pesi massimi che, privato del suo titolo a causa del rifiuto ad arruolarsi in Vietnam, inizia a girare umilmente per università a raccontare la sua verità, a volte in versi poetici.
Il suo idealismo mischiato alla determinazione di adulto monolitico nelle convinzioni, rabbioso con la stampa che non riconosce il suo nuovo nome nella vita da musulmano, lo rende un personaggio enfatico, in bilico tra il desiderio di affermazione e la dura realtà. Per vincere non bastano solo allenamento e determinazione ma anche cattiveria, almeno sul ring. Con la cattiveria si è contesa il primato l’effervescenza della sua anima, sempre pronta allo scherzo anche nelle foto ufficiali, che la malattia ha relegato negli occhi di gigante buono degli ultimi anni.
Forse Mohammad Ali, per me sempre e solo Cassius Clay, è stato più grande quando è diventato più fragile.