Il fatto è di quelli virali, per usare il gergo della Rete. E virale è la sua trasmissione. Il dettaglio colpisce: lo Stato del Texas ha deciso di raccogliere in un database le ultime frasi dei 500 condannati a morte, dalla reintroduzione della pena capitale, nel 1976.
La dinamica è complessa e ben strutturata, come accade ogni volta che la Rete reimmette nel corpo della vita di sconosciuti le intimità dell’anima di uomini e donne vulnerati dall’ultima decisione di altri uomini: la pena si chiama infatti “capitale”. È una stratificazione di messaggi che, dal Texas, giunge a toccare ogni pc americano, con pagine web ufficiali ed utenti, che spaziano, come i giudizi degli uomini sulle cose vaste e immense della vita, da semplici curiosi, ai soliti esperti, i criminologi; tutti, insomma, possono penetrare l’ultima verità espressa dai condannati a morte.
Tutti a farsi la domanda capitale: ma cosa dirà un disgraziato che siede sulla sedia elettrica o aspetta l’iniezione letale, prima di lasciare tutto, la vita e la memoria di sé? È un variegato ventaglio di dichiarazioni, parole e richieste di perdono, vomito di rabbia e preghiere, per quel Dio della vita o dio ignoto che, comunque, attende la creatura lordata di male. Non è più la commedia umana di Balzac, è il proscenio tragico di una civiltà che muore con l’ultima parola del condannato. È la stesura finale di un testo che riguarda tutti noi e che, a distanza o in prossimità, come nelle prime scene del film con Denzel Washington, “Il tocco del male”, afferra la coscienza e non la lascia più distrarre: è l’eccesso di tutto questo che stupra il cuore.
È l’eccesso di ostensione dell’agnello, giudicato colpevole, ma inchiodato alla sua debolezza ultima, a sfracellare l’ultima certezza sulla nostra bontà; è l’eccesso di questa riproducibilità tecnica a richiedere una filologia del bene, precisa, puntuale e non sottoscritta dalla sola pietas. L’ultimo boia francese raccontò a suo tempo l’epopea della ghigliottina, il formidabile strumento di controllo e di iniziazione alla rivoluzione, a spese, storicamente parlando, di un Re, che forse avrebbe potuto trovare ben altro destino.
Ma così è quando un direttorio decide di toglierti la vita: la forza diventa controllo. Lo Stato ha il monopolio legittimo della forza fisica, scrive Max Weber. Ma allora perché, di fronte a parole come queste – «Voglio solo ringraziare chi mi ha dato coraggio in questi anni. […] Questa non è una sconfitta, è una vittoria. Sapete dove sto andando. Sto andando a casa per stare con Gesù […]» – la partita sembra non doversi chiudere e sembra giusto e perfino legittimo, potere permettendo, che non debba essere chiusa da chicchessia?
Sono le ultime parole dell’ultima condannata a morte nello Stato del Texas, Kimberly McCarthy, uccisa da un’iniezione letale lo scorso 26 giugno. La quarta donna e la 500esima esecuzione capitale del Texas. Non mi interessa il referendum permanente pena di morte sì/pena di morte no: la riduzione della posta in gioco fa male a tutti. È un’altra iniezione letale. Mi immedesimo nel percorso che va dall’inizio della tempesta carceraria, nel braccio della morte, alla fine di una vita passata, nelle ultime fasi, a rivedere, passo dopo passo, quell’incompiuta che siamo noi; mi colpisce il corpo che reclama vita e il dolore di una persona che non può più trovare accompagnamento, perché lo stop è ora; mi scava dentro la genìa di eredità che a un uomo o una donna è toccata in sorte e che la sua libertà non è riuscita a tradurre in frutti miracolosi.
È il non-potere-più che mi strazia e quel boia è uomo e criminale come tutti noi. Tutti noi che uccidiamo ogni giorno e creiamo l’ideologia della morte un tanto a pezzo, facendola passare per gaiezza di costumi. Se fai un passo indietro, quando sei di fronte allo specchio, mentre ti fai la barba o ti ripassi il trucco, trovi la stessa boria del male, figlia, forse, della banalità del male. Un continuum di morte per mano molliccia e stanca di vita.