Mi chiedono di scrivere di don Giacomo, che ieri il Signore ha preso nelle sue braccia. A parte il dolore, mi frena il rischio di sentimentalismo di questi momenti. Se c’è una cosa che don Giacomo mi ha insegnato è che la fede è un’attrativa e l’affezione che ne deriva e che il sentimentalismo è solo la sua caricatura. Provo perciò a raccontare don Giacomo attraverso dei semplici particolari.
Il primo particolare sono quei piccoli quartini che alla fine della messa, specie in Avvento e Quaresima, faceva distribuire a tutti. Erano tascabili, di cartoncino che resistesse all’uso, semplici ma curatissimi nei minimi dettagli. C’erano trascritte delle preghiere che magari sapevamo a memoria: Angelus, o Regina Coeli, Magnificat, spesso quella a San Giuseppe che gli era tanto cara, e altre. Come quella di Sant’Anselmo, la cui festa cade proprio domani giorno dei funerali di don Giacomo. Avere quel cartoncino in tasca era come ricordarci ogni giorno di ciò “che abbiamo di più caro”. La cura con cui chiedeva che quei quartini venissero realizzati era per me la riprova della preziosità delle parole che ci stavano scritte.
Un altro particolare è il ricordo di tutte le volte che sono stato a messa nei tempi in cui era parroco a Santa Margherita Alacoque a Tor Vergata. Era una chiesina povera e spoglia di periferia, i fedeli abituali erano gente semplice, di popolo. Eppure la messa di Don Giacomo aveva sempre la stessa cura e quasi la stessa solennità di quando lo si sentiva presiedere a Santa Maria Maggiore. Nella parrocchietta lo seguiva anche un gruppo di ragazzi, di quelli che prima di conoscere e incontrare lui non sapevano neppure più chi fossero la Madonna o Gesù Cristo. Ragazzi di borgata, nei cui sguardi scorgevi lo stupore di quell’incontro avvenuto. Come diceva Péguy, nuovi cristiani nella prima era post cristiana. Quegli sguardi imprevisti erano un dettaglio, ma dicevano molto di più di mille programmi per arginare la secolarizzazione.
Un terzo particolare, è un particolare reiterato. Sono le pagine che ogni mese aprono 30Giorni, il mensile figlio della genialità e della fede di don Giacomo e diretto da Giulio Andreotti. Sono decine e decine di lettere da sacerdoti, suore, missionari che da tutto il mondo scrivono ogni mese per ringraziare il giornale di avere realizzato, tradotto (con gli anni in decine di lingue) e distribuito un libretto con tutte le principali preghiere cristiane: Chi prega si salva. Il sostegno a quell’opera era il gesto di carità che don Giacomo chiedeva a tutti.
La ricaduta la si poteva riscontrare, ogni mese, nel tono e nella quantità di quelle lettere: un senso di gratitudine, una semplicità di fede ritrovata, una povertà di spirito resa felice dalla possibilità di potersi alimentare di quelle preghiere, di quel depositum fidei. Scrive sull’ultimo numero di 30 Giorni una badessa di un convento di Clarisse in Colombia: «Le chiediamo il favore, se possibile, di inviarci dieci libretti Quien reza se salva. Le comunichiamo l’arrivo di nuove vocazioni nel nostro monastero e le affidiamo alle sue preghiere, perché siano molto fedeli nella risposta alla chiamata del Signore e Lui nel suo disegno d’amore conceda la grazia della perseveranza finale».
Infine, ci sono particolari che sono stati importanti se non decisivi per la mia (ma non solo mia, credo) piccola storia personale di giornalista. L’attenzione a tutto, una meticolosità nella correzione dei testi, un tenersi lontani dall’enfasi, una verifica continua nel confronto, un non fidarsi troppo di se stessi… Sono tutte indicazioni che don Giacomo ci ha dato di continuo e che ancora puntellano il senso dell’essere giornalista. Piccoli dettagli che suscitano in me una gratitudine che non trova parole per esprimersi.