(Iraq) — Girando per le strade di Erbil non si ha certo l’impressione di trovarsi in un paese in guerra. L’atmosfera è simile a quello di tutte le città mediorientali: traffico disordinato, bancarelle sparse qui e là che mostrano mercanzie variopinte che vanno dalla frutta ai pesci del Tigri, uomini seduti davanti ai negozi a discutere e trattare sui prezzi. Se si escludono poi le zone del palazzo presidenziale e dell’aeroporto non si vedono in giro ne militari ne agenti di polizia. Anche nel cielo non si vedono jet che volano a bassa quota, ma che al massimo passano lontani, e solo verso sera si ascolta il ronzio degli elicotteri che girano in perlustrazione.
Forse non è questo che ci si aspetterebbe in una situazione in cui la città che l’Isis aveva indicato come sua capitale, Mosul, è a ottanta chilometri ed il fronte segnato delle trincee erette dai Pashmerga curdi lungo il lato orientale della piana di Ninive a circa cinquanta. Probabilmente non vi è una reale alternativa al cercare di condurre una vita normale piuttosto che essere attanagliati dal pensiero che i miliziani neri, nonostante lo scompiglio gettato in molte delle loro file alla notizia della prossima — dichiarata — offensiva irachena, sono a poco più di un’ora di macchina. In fondo in Kurdistan non c’è uomo che non abbia fatto servizio militare.
La pianta di Erbil sembra quella di Milano: strade principali a cerchi concentrici intorno al centro che è segnato dalla Cittadella, uno dei più antichi insediamenti umani permanenti risalente a più di 5mila anni fa. Ma è nella periferia, nella zona intorno all’aeroporto e ai bordi del quartiere totalmente cristiano di Ankawa che si vedono i segni di una situazione anomala caratterizzata da campi profughi di varia natura sparsi sul territorio.
Il quartiere di Ozal city, una delle tante aree residenziali nell’hinterland di Erbil edificate negli ultimi cinque anni ma lasciate disabitate, è un susseguirsi di casette a un piano poste su un lieve declivio; un’area caratterizzata da centinaia di abitazioni che probabilmente erano destinate a costituire una zona residenziale e che ora sono state affittate dalla diocesi caldea per accogliere una parte dei profughi che le abitano occupandone una ogni tre famiglie. Le suore dell’asilo “Casa del bambino Gesù”, che qui hanno provvisoriamente aperto la loro sede, raccontano che nel 2014 la linea del fronte si trovava tra la loro cittadina, Qaraqosh, di circa 50mila abitanti, e Mosul, distante una ventina di miglia, quando all’improvviso le truppe curde ricevettero l’ordine di ripiegare più a est tagliando fuori la cittadina ed esponendola all’occupazione dell’Isis.
L’ordine di sgombrare entro le undici di notte passò di casa in casa all’inizio della sera e così nel giro di un paio d’ore tutta la popolazione abbandonò le case e si diresse verso Erbil, che rappresentava l’unica area sicura. Alle cinque del mattino seguente i miliziani neri entravano nella città. La fuga della popolazione cristiana, yazida e di molti musulmani dalle aree della piana di Ninive è avvenuta in questo modo, quasi sempre all’improvviso e per la maggioranza la meta è stata Erbil.
Questa fuga senza preavviso ha portato nelle prime settimane ad una situazione caotica in cui le famiglie si accampavano alla periferia della città, in modo sparso, rendendo così difficile ogni intervento. Il primo passo è stato attuato dalla diocesi di Erbil che, una volta individuate alcune aree in accordo con la municipalità, ha cominciato a convogliare i profughi in centri di raccolta per provvedere agli interventi di primissima necessità. Essendo disponibili centinaia di abitazioni libere nelle periferie una parte di queste è stata affittata per alloggiare una parte degli sfollati. Nel frattempo si era mossa la macchina degli aiuti internazionali che ha cominciato a provvedere alla distribuzione di cibo e generi di prima necessità.
Nel giro di un anno e mezzo la situazione si è evoluta migliorando molto la logistica ma restano numerosi problemi. Uno è quello delle famiglie a cui è stata assegnata un’abitazione in comune: il costo di questi appartamenti è sostenuto dalla diocesi utilizzando i fondi delle donazioni internazionali, ma dato il numero elevato di famiglie il costo è elevato e il vescovo attualmente prevede di non potere provvedere agli affitti oltre al mese di giugno. Andrà quindi trovata una sistemazione per queste famiglie e questo andrà ad aggravare il contesto dei campi esistenti.
Per quanto riguarda i campi invece la situazione resta piuttosto differenziata. La gestione dei campi abitati per la maggior parte da cristiani è affidata in genere a sacerdoti, a volte gli stessi che erano presenti nelle comunità dei centri abbandonati, alcuni invece sono affidati a preti locali; gli altri sono gestiti da Ong. Tutti però tutti con il supporto degli aiuti internazionali. Nessuno dei campi di Erbil è più costituito dalla tende che caratterizzavano la primissima fase, ora le abitazioni sono container assegnati uno per famiglia ma, mentre in alcune aree si è riusciti ad ottenere una logistica caratterizzata da aree abitative con percorsi bene agibili ed aree comuni (chiesa, area giochi, aule, sale polivalenti) fruibili da tutta la comunità, in altre la ristrettezza dello spazio disponibile ha comportato il costituirsi di agglomerati eccessivamente ristretti con spazi comuni e servizi molto limitati, ed in questi casi la convivenza è molto più difficoltosa. L’intervento degli aiuti da parte delle Ong ora si sta orientando principalmente su queste situazioni cercando di rendere più fruibile la logistica.
Nell’affronto generale è necessario tenere conto del fatto che la popolazione fuggita dall’area interessata dagli scontri abitava in contesti sociali ben strutturati e caratterizzati dai normali servizi presenti in cittadine di piccole dimensioni con disponibilità di scuole, ospedali e servizi. Inoltre la maggior parte dei profughi abitava in case di larga metratura, che sono tipiche di quel contesto abitativo. Tutto questo da una parte rende più difficile l’adattamento alla vita nei campi ma dall’altra ha permesso a molti di riprendere in loco, e su base volontaria, l’attività precedentemente svolta. Importante in questo senso l’esempio di alcuni medici operanti negli ospedali che sono stati abbandonati e che hanno costituito, con l’aiuto delle chiesa locale e di alcune Ong, una piccola rete di ambulatori caratterizzata da percorsi per acuti e per cronici a favore dell’assistenza sanitaria degli sfollati.
E’ evidente che una descrizione sintetica come quella riportata può solo dare idea molto generica della situazione attuale dei profughi a Erbil, che è peraltro caratterizzata da una progressiva evoluzione su cui ha una grande influenza anche la decisione se restare o emigrare che molti stanno affrontando. In questo senso non c’è abitante di un campo che alla domanda “cosa desiderate per il futuro” non risponda “tornare a casa”; anche se poi, parlando di fronte all’immancabile tè, molti dicono che a casa non ci torneranno mai.