C’è un uomo che in questi giorni nessuno vuole riconsegnare a Dio. Il suo nome è Erich Priebke e nella storia è noto per avere preso parte, come comandante nazista, alla strage delle Fosse Ardeatine di Roma.
Si è spento lo scorso 11 ottobre senza rinnegare il proprio passato, ma esibendolo e arricchendolo con un ulteriore carico di bugie e di odio. Elsa Morante, forse senza saperlo, ha raccontato di lui ne La storia descrivendo gli ultimi istanti di uno delle Ss che – dinnanzi all’ultimo fiore sbocciato sul muretto che lo conduce al patibolo – ha la possibilità di essere libero e di chiedere perdono del proprio male. Purtroppo, come quel gerarca, anche Priebke ha strappato l’ultimo fiore e ha voltato le spalle alla storia.
Chi è rimasto non ha saputo resistere: molti si sono messi in mostra per esibire il proprio pedegree democratico, altri hanno semplicemente riconosciuto in lui il Male. L’uomo ha così perso la sua forma e il funerale di Priebke è diventato il corteo degli orrori, prima per il tentativo politico di non concedergli nessun funerale, e poi per il più comprensibile disprezzo degli uomini che – come già accaduto molte volte nella storia – cercano un cadavere dove imprimere la loro giustizia.
Eppure, comunque la si pensi, mai come in questo caso c’era bisogno di un funerale. Mai come in questo caso gli uomini potevano e dovevano aver voglia di accompagnare il gerarca davanti a Dio. Perché il funerale non è un onore, è un atto di riconsegna con cui la nostra stirpe prende commiato dalla storia terrena di un uomo per affidarlo – definitivamente – alla storia di Dio. Invece ha prevalso tutt’altro: la nostra voglia di eliminare il male, di chiudere i conti con la storia, di usare del cadavere di un criminale e di un assassino per ricostruirci una verginità politica o per affermare, ancora una volta, la nostra diversità.
Quella stessa diversità ostentata dalla Fraternità di Pio X, i lefebvriani che hanno accettato di celebrare, in forma privata, le esequie di Priebke ad Albano Laziale, mostrando la loro capacità di misericordia a dispetto del tanto osannato “ospedale da campo” di papa Francesco, l’ospedale nel quale loro – fedeli guardiani della Dottrina – non vogliono affatto entrare.
Le cose, però, non stanno proprio così. Per capirlo basta leggere san Paolo al capitolo decimo della prima lettera ai Corinzi. Gli abitanti della città vorrebbero mangiare le carni immolate agli idoli, convinti – giustamente – che gli idoli non esistano e che la carne, rivenduta ai banconi del mercato cittadino, possa essere tranquillamente mangiata.
Il fatto, però, è di obiezione a molti neo-convertiti che, vedendo una tale prassi, suppongono che non ci sia molta differenza tra il culto agli idoli e il culto al Dio cristiano. San Paolo interviene e non ha dubbi: il criterio della vita non può essere solo la conoscenza, la consapevolezza che gli idoli non esistono, ma deve passare anche attraverso la carità, il fatto che un’azione − anche se moralmente innocua − possa suscitare scandalo agli occhi di molti. Con questa motivazione san Paolo ha proibito di mangiare quella carne.
Su questa strada il vicariato di Roma non ha negato le esequie a Priebke, ma le ha ammesse soltanto entro il recinto di casa, perché la memoria delle vittime non sia offesa e il gesto non permetta a nessuno di associare la Chiesa ai rigurgiti nazionalsocialisti del nostro tempo, intrisi di antisemitismo, negazionismo e odio verso l’ordine costituto. La misericordia interessata dei lefebvriani è piena di scienza e di dottrina, ma è povera di carità. Carità verso uomini che non riescono ad essere più grandi del loro odio, carità per una morte che troppi vorrebbero saldasse i conti di molti altri.
La storia non è il luogo dei principi e della dottrina: è la casa degli uomini. Quella stessa umanità che il nazista ha disprezzato e che ieri, come una furia, ha mostrato il suo lato più becero e tribale, cercando in tutti i modi di emulare − almeno nell’odio − il terribile carnefice. Non è una bella vicenda quella di questi giorni. Racconta del male, di troppo male. Non quello che è morto, e che puó risorgere nel cuore di ciascuno, ma quello che è vivo e che si ammanta di democrazia e di misericordia. Dimenticando che quando un’anima lascia la storia, nel 1944 come oggi, gli uomini che restano hanno un solo dovere: portarla davanti a Dio.
La rabbia non risolve nulla, né l’esibita compassione per chi ha sbagliato e non si è pentito. Ciò che cambia il mondo, e impedisce alla storia di ripetersi, è l’Amore. Proprio ciò di cui, in questi giorni, si è sentita di più la mancanza.