E’ così vomitevolmente inqualificabile la condizione in cui, a Napoli, la classe politica ha lasciato decomporsi il bilancio locale, e il modo in cui la cosiddetta “società civile” ci ha marciato, che bisogna autocontrollarsi per non scadere nei luoghi comuni e nell’invettiva. Ma la denuncia impietosa della Corte dei conti sulla situazione del bilancio pubblico della città di Napoli, che è ormai tecnicamente fallita, non permette interpretazioni morbide.
Da un lato, un ceto politico – va detto, da oltre vent’anni guidato dalla sinistra in Comune e a lungo anche in Regione – commette in pratica scientemente del falso in bilancio, se consideriamo che accreditano come incassate le imposte teoricamente dovute dai cittadini e le multe comminate, pur sapendo assai bene che (purtroppo) quegli importi non saranno mai incassati perché il tasso di evasione è lunare, e strumenti coercitivi efficienti non ne esistono; dall’altro lato, una popolazione che per il 50% evade le tasse e le multe, in sostanza – l’espressione forte è d’obbligo – “se ne fotte” dello Stato. Non paga e non pagherà, e quindi ogni giorno che passa approfondisce il “buco” nei conti comunali.
Tutta povera gente? Tutti sottoproletari urbani che non superano la terza settimana? Macchè. Se si consultano i dati Istat sui consumi delle famiglie, il valore di quelli del Sud sono del 20% inferiori alla media nazionale, non certo del 50%. Multe e tasse vengono evase perché lo Stato non c’è, la sensazione di impunità e proterva, e la spontanea adesione ai doveri dei cittadini non è percepita. Colpa dei singoli, nei loro quotidiani comportamenti come nel comportamento elettorale, che periodicamente continua, ciecamente, a premiare – trasversalmente ai partiti – i peggiori campioni del voto di scambio.
Una situazione allucinante, da evocare – questa sì, non è un’iperbole – come unica soluzione quella del commissariamento a lungo termine, con una protratta sospensione dell’autonomia locale e un presidio capillare da parte delle autorità centrali di tutti i gangli della vita amministrativa locale.
Certo, non tutta la Campania soffre della stessa sindrome. Basta scendere a Sud per altri 50 chilometri e a Salerno sembra di stare in un altro mondo. Ma ancor di più allora sorge insopprimibile una reazione di protesta e ribellione a uno status quo che, alla fin fine, non mancherà di scaricarsi sui conti nazionali e quindi nelle tasche di chi le tasse le paga. L’attitudine piagnona di un certo risorgente meridionalismo che accusa sempre “qualcun altro” dei mali del Mezzogiorno, di fronte a queste evidenze dovrebbe avere il pudore di autocensurarsi.