C’è un cimitero visibile a occhio nudo lassù sulla montagna più alta e ambita del mondo, l’Everest. Da quando nel 1953 Edmund Hillary e Tenzing Norgay scalarono la sua vetta, più di 4mila persone hanno ripetuto l’impresa, ma almeno 200 altri alpinisti ci sono morti, alcuni prima di giungervi, altri al ritorno dalla conquista. La cosa angosciante è che quasi tutti i loro cadaveri sono rimasti lassù, sia perché impossibile recuperarli perché coperti da valanghe o dal ghiaccio, sia perché coloro che scendono dalla vetta sono sempre in condizioni fisiche tali da non poter portare giù i loro resti. Si trovano tutti in quella che è definita la “death zone”, poco vicino alla vetta, dove i livelli di ossigeno si riducono di un terzo rispetto al livello mare e la pressione fa percepire il proprio corpo dieci volte più pesante di quanto sia in realtà. In questa area, nessuno cerca di rimanervi per più di 48 ore, dato il rischio che comporta. Alcuni di questi cadaveri perfettamente conservati o quasi per via delle temperature sotto lo zero, sono ancora visibili, lì dove sono morti, per il freddo o per una caduta. I loro resti sono diventati una sorta di avvertimento per chi segue le loro tracce, e anche punti di riferimento per la scalata.
Tra questi il cadavere perfettamente conservato di uno scalatore soprannominato Green Boots per via del colore die suoi scarponi, che si pensi sia uno scalatore indiano, tale Tsewang Paljor, quassù dal 1996 e il cui corpo solo recentemente è stato finalmente rimosso. Il suo cadavere è rimasto per quasi vent’anni vicino a una piccola caverna da cui tutti gli scalatori devono passare per arrivare in vetta, caverna che viene usata da molti per fare sosta.
Nel 2006 un altro alpinista, l’inglese David Sharp che tentò quella cosa sconsigliata a tutti, conquistare la vetta dell’Everest da solo, morì nello stesso punto e il suo corpo fui trovato in posizione seduta con le braccia attorno alle ginocchia, morto per il freddo. Secondo le cronache, almeno 40 persone passarono davanti a lui il giorno della sua morte, e nessuno si fermò a vedere se fosse ancora vivo come invece pare che fosse, cosa che suscitò un dibattito sull’atteggiamento degli scalatori, così presi dalla smania di conquistare la vetta da non fermarsi a soccorrere nessuno. Ma un’altra scoperta venne fatta nel 1999, i resti di colui che è considerato il primo a cercare di conquistare la vetta dell’Everest, anche se nessuno sa se effettivamente ci riuscì. Si tratta di George Mallry, qui morto nel 1924.
I suoi resti sono affiorati nel 1999 durante una primavera insolitamente calda: il torso, il braccio sinistro, le sue gambe e pochi stracci dei suoi abiti. I resti più impressionati per anni sono però stati quelli di Hannelore Schmatz, anche la prima donna a morire sull’Everest nel 1979 e a raggiungerne la vetta, ma morta di stanchezza poche centinaia di metri dal campo. Il suo errore fu di fermarsi nella cosiddetta Death zone dove quella volta ci fu una terribile tempesta di neve. Cercò di fuggire ma morì di stanchezza: il suo corpo per anni è rimasto semidisteso, il torso eretto e i suoi capelli che volavano nel vento e gli occhi aperti. Poi un anno una violenta tempesta di neve e vento spostò il corpo dove nessuno lo ha mai più ritrovato. Impossibile portare via questi poveri corpi bloccati nel ghiaccio durissimo: nel tentativo di portare via il cadavere della Schmartz, morirono altri due alpinisti. Ma tutto questo non ferma centinaia di alpinisti ogni anno dal tentare di conquistare la montagna più alta del mondo.