Mentre nell’Aula del Parlamento sta finalmente arrivando il dibattito sul cosiddetto testamento biologico si moltiplicano le riflessioni che da prospettive diverse cercano di argomentare aspetti positivi e aspetti negativi della legge in questione. Una legge, il cui nome corretto, vale la pena ricordarlo, è: Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento.
Nell’interpretazione dell’articolato della legge, com’è ormai evidente per tutti, si confrontano due culture, che stentano a trovare un punto di convergenza:
– quella laica di ispirazione cristiana, che riconosce alla vita umana valore in sé stessa, a prescindere dalle capacità del soggetto. È una concezione in cui al valore della vita si affianca il valore della libertà, considerata come una delle qualità principali dell’uomo, che esprime tutto il suo valore potenziale solo se e quando la persona vive.
– quella laico-laicista, centrata sul principio di autodeterminazione, che vede nella libertà un valore assoluto, a cui il valore della vita è strettamente subordinato. È una visione in cui è consentito il negare la vita, autorizzando la volontà di morire in varie forme: dalla sospensione dell’idratazione e della nutrizione fino alla non attivazione delle cure (eutanasia).
Anche ieri su Repubblica Stefano Rodotà ha rilanciato questo appello alla libertà, definendo “legge truffa” l’attuale disegno di legge. Le sue parole sono pesanti come pietre e vale la pena citarle per smascherane la possibile fallacia non solo sul piano linguistico, ma anche sul piano storico e, mi sia consentito come medico, sul piano della deontologia medica.
Dice infatti Rodotà: “Non siamo soltanto davanti a una legge truffa, ma all’abbandono del lungo cammino che, partito dalle esperienze tragiche delle tirannie del Novecento che si erano violentemente impadronite dei corpi delle persone, era approdato all’affermazione netta della essenzialità del consenso dell’interessato…”. Questo suo modo di esprimersi riflette uno strumentale riduzionismo delle tragiche esperienze legate alle tirannie del Novecento, proprio perché dimentica di dire che le ideologie di quel secolo, nazismo o comunismo che fossero, prima che dei corpi si erano impadronite della libertà e dei valori più profondamente umani di cui ogni uomo dispone.
Rodotà giustamente si sofferma sull’essenzialità del consenso umano, riaffermata anche nella Carta dei Diritti fondamentali dell’uomo, dove dignità umana e consenso informato sono strettamente collegati. Le ideologie del Novecento, tutte, nessuna esclusa ciò che hanno più violentemente negato è stata proprio la dignità della persona umana, privandola della libertà necessaria per dare il proprio consenso agli interventi terapeutici che tanto da vicina la toccavano.
Ma ciò che sorprende in queste culture malate è la profonda corruzione di quel rapporto di alleanza terapeutica che fin dai tempi di Ippocrate si è sempre stabilito tra medico e paziente. I medici nazisti, e non solo loro, nei campi di concentramento, non solo non chiedevano nessun tipo di consenso al malato, non solo non gli fornivano nessun tipo di informazione, ma agivano in grave ed evidente contraddizione con il bene della sua salute e della sua vita.
Quella classe di medici, ideologicamente deviati, è colpevole di crimini nei confronti di tutta l’umanità, proprio perché ha allungato l’ombra del sospetto su tutto l’agire medico, capovolgendo pesantemente il paradigma dell’arte medica. Ciò che definisce in profondità l’identità del medico, ciò che ne scolpisce in modo inequivocabile il suo profilo professionale, è la relazione di aiuto competente. È proprio del medico la capacità e la volontà di curare, di alleviare sempre dolori e sofferenze, e anche quando non riesce a guarire il paziente c’è sempre la possibilità di migliorarne la qualità di vita, di rendere più accettabile il dolore, di mitigare il senso della sofferenza, di non farlo sentire solo né tanto meno abbandonato.
La nostra Costituzione, scritta oltre 60 anni fa, proprio a ridosso della fine della guerra, quando era ben chiara nella memoria e nell’orrore di tutti di cosa si fosse macchiata la non-medicina nazista, ha voluto ribadire il valore del coinvolgimento del paziente nei processi decisionali che riguardano lui e la sua salute. Ha voluto farlo in quel comma due dell’articolo 32 della Costituzione, che segue, come è naturale il Comma uno, in cui si afferma che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
La salute di ogni uomo non è solo un diritto individuale, è anche interesse generale e per questo il nostro Sistema Sanitario Nazionale, che è tra i più avanzati al mondo, lo tutela affrontando problemi ad alta complessità sotto il profilo economico, scientifico ed organizzativo. E giustamente tutti ci scandalizziamo e ci ribelliamo davanti alle inefficienze del SSN o peggio ancora davanti agli errori sanitari che a vario titolo vengono commessi ancora con troppa frequenza.
Tutti noi siamo interessati al paradigma della cura e vorremmo che funzionasse nel miglior modo possibile, per assicurare al malato tutte le cure di cui ha bisogno fino al termine della sua vita, garantendogli che non sarà mai abbandonato, anche se la sua famiglia venisse meno o non volesse farsene carico.
Rodotà continua con la sua invettiva, perché di questo si tratta assai più che di un normale articolo, dicendo: “La riconsegna della persona e del suo corpo al potere politico e al potere medico che sarebbe l’esito vero dell’approvazione della legge, è fondata su due affermazioni: la prima essere la vita indisponibile, mentre è vero l’opposto come dimostra l’ormai consolidato rifiuto delle cure… la seconda: il divieto di rinunciare all’alimentazione e alla idratazione forzata, che le società scientifiche di tutto il mondo considerano trattamenti sanitari…”.
È facile rispondere a Rodotà che il rapporto tra politica e sanità è così stretto da impegnare oltre l’80% dei bilanci regionali e che le norme che regolano questo rapporto sono innumerevoli, a cominciare dalla 180 (legge sui manicomi) e dalla 194 (legge sull’aborto), passando per la 833 (legge che istituisce il SSN), tutte risalenti al 1978, in cui per l’appunto nell’arco di soli sei mesi potere politico e potere medico si trovarono a prendere delle decisioni che ancora oggi incidono in modo molto forte nella vita di molte persone e di molte famiglie.
Negli oltre 30 anni seguiti a queste leggi sono stati innumerevoli i punti di incontro tra politica e medicina, penso alla legge sui trapianti, nell’ambito della quale si definì il concetto di morte cerebrale e la possibilità di prelevare gli organi da impiantare su pazienti in gravi condizioni e in attesa di una donazione, ma penso anche alla legge 40 sulla fecondazione medicalmente assistita. Tante leggi che di volta in volta hanno incontrato il consenso di alcuni e il dissenso di altri, proprio perché si innestavano in questa area delicatissima in cui politica e medicina sembrano quasi scambiarsi le parti, ogni volta credendo di stare dalla parte del paziente.
Ed è per questo che appare del tutto forzata l’espressione di Rodotà quando parla del consolidato rifiuto delle cure. Il rifiuto delle cure è tutt’altro che consolidato e si innesta in un processo di confronto tra i desideri e le paure del malato con la competenza e la capacità di persuasione del medico che non può che essere collocato in un presente fortemente attualizzato: hic et nunc e non ora per allora.
Il consenso informato, rispetto al rifiuto totale delle cure da parte del malato, infatti, non può essere delegato a nessuno, neppure al fiduciario, per cui non può essere oggetto di una dichiarazione anticipata, e se mai lo fosse questa non può avere carattere vincolante.
Rodotà non ignora sicuramente che il documento del CNB sul rifiuto dei trattamenti sanitari della fine del 2008 prende in considerazione esclusivamente malati consapevoli e autonomi, ossia pazienti in grado di comprendere esattamente ciò che stavano chiedendo all’interno di una relazione con il loro medico e in grado di mettere in atto in piena autonomia le decisioni prese.
Come dire che venivano totalmente esclusi sia i pazienti che non fossero coscienti, come accade per i pazienti a cui si applica questa legge, sia i pazienti che in ogni caso avrebbero avuto bisogno di terzi per portare a termine quanto deciso. E anche in questi casi la lunga postilla di Francesco D’Agostino al documento del CNB ne rivela tutte le possibili insidie di stampo eutanasico, che si insinuano tra le affermazioni della relazione.
In ogni caso il diritto alla non attivazione o all’interruzione delle cure, quando si tratta di cure salva vita, la cui omissione non può che essere la morte, richiede necessariamente una volontà attuale, libera e consapevole e non può rientrare nella logica dell’ora per allora, tipica delle dichiarazioni anticipate di trattamento.
L’aspetto più insidioso nella posizione dei fautori del principio di autodeterminazione nella sua formulazione assoluta è quello di ribadire il diritto alla non attivazione o alla interruzione di ogni tipo di cura, anche quelle salva-vita.
Il dibattito sulla nutrizione-idratazione medicalmente assistita se sia un trattamento di tipo medico (e come tale possa rientrare tra i desiderata del paziente) o se sia invece un sostegno vitale (e come tale vada sempre assicurato al paziente) può diventare un potente distrattore rispetto al vero punto critico della legge, che attualmente riguarda soprattutto il diritto del paziente al rifiuto-rinuncia delle cure.
La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. È quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente, evitando le sofferenze e la morte dovute a inanizione e disidratazione.
Non si può prescindere dal criterio etico generale, secondo il quale la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenta sempre un mezzo naturale di conservazione della vita e non un trattamento terapeutico. Il suo uso sarà quindi da considerarsi ordinario e proporzionato, anche quando lo “stato vegetativo” si prolunghi. D’altra parte il rifiuto della nutrizione-idratazione è perseguito con tanta ostinazione solo perché è un fattore sicuro di morte in un tempo che si presuppone ragionevolmente breve.
Dice ancora Rodotà, citando una sentenza della Corte del 1990, che sono illegittime sia le pretese del legislatore scienziato che quelle del legislatore medico, perché il valore costituzionale della inviolabilità della persona umana comprende il potere della persona di disporre del proprio corpo. Eppure è proprio dalla collaborazione del legislatore con il medico e con lo scienziato che sono nate tante leggi che solo apparentemente limitano il potere dell’uomo sul suo corpo, mentre in realtà fungono come norme di garanzia per la sua salute e la sua vita.
Basta pensare a una serie di norme che limitano la donazione del sangue, che non consentono la donazione di organi, che impongono degli obblighi di guida con relative limitazioni anche per chi viaggia accanto, oppure determinano dei criteri di sicurezza da rispettare sui luoghi di lavoro, ecc…
La libertà acquista il suo pieno significato sempre nella prospettiva della tutela della vita e della salute. In un certo senso proprio l’articolo 32 della Costituzione nel momento in cui predispone cure per tutti gli indigenti sembra invocare una sorta di diritto contestuale a curarsi e un obbligo dello Stato di provvedervi, immaginando un patto scritto proprio tra i diversi commi della nostra Costituzione.
Rodotà ha da tempo innestato, indubbiamente insieme ad altri, un processo di accanimento anti-legislativo che forza sistematicamente l’interpretazione di questa legge, come quando la definisce “legge truffa”, o enfatizza i risultati di un sondaggio Eurispes secondo il quale il 77% sarebbe favorevole all’eutanasia.
Sono molte le tesi maturate in diverse Facoltà di Medicina in cui con grande serietà scientifica è stata esplorata la frequenza e la tipologia della richiesta eutanasica, ottenendo risultati ben diversi da questo 77%, che risulta decisamente forzato e pone qualche dubbio sulla confezione del campione o sulle modalità in cui erano poste le domande, o ancora sull’impatto emotivo di trascinamento legato alla vicenda Englaro.
Ci sono inoltre numerose e consolidate esperienze fatte, ad esempio, in diversi Hospice italiani, in cui le richieste eutanasiche non raggiungono neppure il 2-3 per mille. E sono stati intervistati sia i familiari che i soggetti malati. In un paese malato di sondaggite è bene che le persone si interroghino sulla metodologia del sondaggio e sulla correttezza della raccolta dati e della relativa interpretazione.
In definitiva se è vero che alcuni condividono i dubbi e le perplessità di Rodotà, bisogna riconoscere che sono molti coloro che sono sostanzialmente favorevoli alla legge, proprioper quanto riguarda la tutela della vita e il no chiaro e fermo all’eutanasia; il sì alle cure palliative e il no all’accanimento terapeutico; la necessità di acquisire il consenso informato prima di qualsiasi intervento e il no all’abbandono del malato.
Persone che si aspettano una formulazione della legge in cui il valore della vita si integri con quello della libertà del paziente e del medico; l’autonomia del paziente non si riduca all’indifferenza del medico; il valore delle cure non diventi un inutile accanimento; l’alleanza medico-pazienti non degeneri in una forma di contrattualismo. È un’opinione assai più diffusa di quanto non credono i detrattori delle legge, che tendono troppo spesso a fare di tutta un’erba un fascio, mettendo insieme il giudizio su di una cattiva legge e su dei pessimi legislatori o peggio ancora degli incauti sostenitori, finendo in questo modo col mandare al macero la tanto decantata libertà di autodeterminarsi e di pensare anche in modo alternativo al loro.
Sembra che dietro tante critiche in fondo si celi una sostanziale intenzione manipolatoria per avere una legge a misura della propria libertà, ma non di quella altrui.