Che cosa si prova a poche ore da una condanna a morte? Come si può confortare una persona che sa che da un momento all’altro verrà ucciso? Soprattutto se sa di non aver fatto nulla di male, nulla che gli meriti neanche il carcere.
La Liberazione, festeggiata il 25 aprile con le solite parate trionfali, conserva pagine dimenticate, oscure, spesso volutamente lasciate nel dimenticatoio. Pagine che non si vorrebbero uscissero mai fuori perché danno aspetti e volti diversi all’usuale visione a senso unico di questa giornata e di quanto accadde prima di essa. Non ci furono infatti solo i partigiani in quel momento storico.
Una storia indicativa, e terribile, è ad esempio uscita fuori solo adesso, grazie al quotidiano Arena che l’ha resa pubblica proprio il 25 aprile. E’ la storia di alcuni giovani dei dintorni di Firenze, fucilati (come tanti altri) perché dopo la resa dell’esercito italiano l’8 settembre 1943 – e dunque a guerra finita – non ne avevano voluto sapere di arruolarsi nelle milizie della sedicente Repubblica di Salò, un fantoccio creato da Mussolini essenzialmente per pararsi le spalle dal vecchio alleato Hitler e dagli alleati che ormai stavano liberando tutto il paese. Sciolto l’esercito italiano, undici di loro giustamente erano tornati alle proprie abitazioni, le colline di Vicchio di Mugello a fare i contadini presso le proprie famiglie. Ma l’odio, quella cosa che la guerra diffonde più di ogni altra cosa, e probabilmente anche ricompense in denaro, fece sì che qualcuno facesse la spia e li denunciasse alle milizie di Salò.
Una storia questa che è venuta a galla grazie al lavoro infaticabile di un alpino, Luigi Albrigli, appassionato ricercatore di storie rimaste sconosciute, che ha trovato la relazione che un sacerdote inviò all’archivio di Stato del Vaticano e al Comitato di liberazione nazionale antifascista. Quel sacerdote era don Angelo Beccherle, tenente cappellano militare.
Arrestati in undici, accusati come renitenti alla leva, due furono graziati (il fratello gemello di uno di questi invece fu condannato a morte); uno condannato a 15 anni di carcere, un altro a 20, altri due a 24 anni. Ma ci voleva l’esempio per tutti coloro che ancora si nascondevano e anche per i miliziani della Repubblica di Salò: per questo cinque di loro, probabilmente scelti a caso, furono condannati a morte. La data dell’esecuzione scelta era il 22 marzo del 1944, il luogo sotto alla torre di Maratona in Campo Marte a Firenze, gli esecutori quindici giovani reclute che “dovevano imparare la lezione”.
Don Angelo passò con i condannati (Ottorino Quiti, Antonio Raddi, Adria-no Santoni e Guido Targetti, Leandro Corona) le loro ultime ore, descritte con lucidità e pietà impressionanti. Ad esempio quando il sacerdote dice al Raddi che suo fratello gemello era stato graziato: “Padre, mi confessi, non ho paura di morire; di due figli la mia mamma ne ha almeno uno. Che grazia mi ha fatto la Madonna!”.
I cinque in cella crollano però nella disperazione. Impossibile mettersi nei panni di una persona che sa che da un momento all’altro sarà ammazzato, nel pieno dei suoi giovani anni, per nessuna colpa: “Erano disperatissimi: gridavano, si dimenavano, si buttavano a terra, mi abbracciavano e a mani giunte invocavano pietà, quasi che io potessi salvarli. Volevo lasciarli sfogare, volevo con-solarli, volevo aiutarli, volevo pure calmarli. Non sapevo neppure io che fare. Per più di un’ora durò questa estrema esasperazione, eppoi venne il collasso fisico e morale per tutti”. Uno di loro rimane svenuto per tutto il tempo.
Nessuno si cura di dire loro a che ora avverrà l’esecuzione, è questo che crea l’angoscia più devastante. Alle tre del mattino don Angelo decide di dire la Santa Messa con loro; partecipano anche il comandante del carcere e alcune guardie, per dire quanto questa ingiusta sentenza aveva commosso tutti i presenti. Dopo la Messa, le domande dei disperati: ci faranno tanto male quando ci fucileranno? Alle sette saremo già morti? Come si sta sottoterra, morti?
Arriva il momento fatidico: il brigadiere dei carabinieri che doveva ammanettarli per portarli al supplizio è così commosso che si mette a piangere e non riesce a farlo, lascia il compito a un collega. Poi vengono messi su un auto. Scrive don Angelo: “Erano impazziti da dolore, non facevo che accarezzarli e baciarli”. Tre di loro muoiono subito sotto i colpi del plotone di esecuzione, due sono feriti. Ci pensa il maggiore Mario Carità, un nome che sembra la presa in giro finale di questa carneficina, capo dei servizi speciali, noto a tutti per la sua crudeltà, a finirli con alcuni colpi di pistola alla testa. Un altro ufficiale chiede ai suoi soldati: “Beh, ragazzi, vi è piaciuto il cinematografo di stamani?”. Secondo alcune testimonianze, i fucilatori del plotone di esecuzione per settimane sarebbero rimasti sconvolti da quanto fatto, sognando tutte le notti la fucilazione e le urla dei martiri innocenti.
Non erano partigiani, non erano impegnati politicamente come anti fascisti: sarebbero stati insigniti con la medaglia d’oro al valor civile. Cinque ragazzi che desideravano solo la pace.
A fronte di questa storia ce n’è un’altra che ha sempre per protagonista don Angelo, anche se questa è risaputa.Il futuro campione di ciclismo Gino Bartali, ai tempi costretto ad arruolarsi nella Repubblica di Salò, fu assegnato come assistente del cappellano. I due insieme avrebbero salvato molti ebrei dai campi di concentramento, tanto da guadagnarsi Bartali il riconoscimento di Israele come “Giusto fra le nazioni”.