L’appello del gruppo di esponenti della cosiddetta società civile, capitanati dai professori Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelski, giuristi fini ma partigiani, ha trovato da ultimo eco nelle parole di Saviano che ha così plasticamente sintetizzato la questione: “il diritto a scegliere sulla propria fine vita, serve a garantire che all’interno di una legge ognuno trovi la sua strada”. È la consacrazione di un ruolo che al diritto mai era stato assegnato: essere garante della volontà individuale, qualunque essa sia.
Ma andiamo con ordine. Il rimprovero fondamentale che i paladini del c.d. diritto di scelta muovono al disegno di legge sulle direttive anticipate di trattamento, pendente alla Camera dei deputati, ruota attorno a tre postulati: che con l’approvazione di questa legge ciascun cittadino perderebbe il proprio diritto all’autodeterminazione; che è contraddittorio ritenere la vita quale bene indisponibile essendo previsto il diritto costituzionale al rifiuto delle cure; che il disegno di legge prevede l’alimentazione e l’idratazione forzate in disprezzo dell’art. 32 della Costituzione.
Le tre obiezioni mirano ad affermare un assioma, non nuovo al dibattito pubblico sul fine vita, che ritiene come la libertà individuale si debba sempre tradurre in vere proprie pretese giuridiche che obbligano l’ordinamento a conformarsi a esse. Non si coglie, in altri termini, la distinzione tra libertà e diritto positivo, ius positum, regola cioè posta dallo Stato per disciplinare situazioni sociali facendole emergere dall’indifferenza normativa. Mentre la libertà individuale gioca il suo ruolo sul piano morale ed è lasciata all’agire del singolo consociato, quando si entra sul piano del diritto è l’ordinamento stesso a dare rilevanza a interessi che assumono il rango di pretese giuridiche, distinguendoli da quegli interessi, non giuridificati, che rimangono nell’alveo della libertà.
Ora il caso della volontà-libertà di determinare scelte di fine vita non ha attualmente nel nostro ordinamento la portata di “pretesa giuridica”, ma cozza contro disposizioni di legge a tutela della vita umana, con la conseguenza che se qualcuno oggi ponesse fine a un’esistenza umana per assecondare il volere del malato incorrerebbe nella commissione di reati come l’omicidio del consenziente o il suicidio assistito. Non esiste dunque allo stato della legislazione italiana un diritto assoluto all’autodeterminazione, che perciò non può ritenersi prevaricato da un ddl in via di approvazione.
L’idea sottesa all’assioma criticato è con tutta evidenza che il nostro ordinamento debba sempre ritenere “assoluta” la volontà dei consociati, salvo che questa non si scontri con altre libertà, e che giammai possa ritenersi prevalente un valore collettivo in contrasto con tale volontà. Ma non è così. Un esempio meno pregno di conflittualità è chiarificatore: anche se un dipendente volesse lavorare ventiquattro ore al giorno ciò non è consentito dall’ordinamento in quanto va contro la dignità e l’integrità fisica della persona.
Anche la critica alla contraddizione tra vita quale bene indisponibile e diritto – ma più correttamente “libertà” – di rifiuto delle cure sconta la stessa impostazione. L’espressione “indisponibile” per il diritto significa che “non si può trasferire” e non certo che non si può esercitare personalmente quel diritto. Infatti i c.d. diritti di libertà sono tali solo se esercitati personalmente, se si cedessero ad altri smarrirebbero la loro ragion d’essere. Si pensi alla libertà di pensiero: potrei forse spogliarmene e trasmetterla a un altro?
Proprio con riferimento al rifiuto di cura, la giurisprudenza di legittimità italiana non è rappresentata solo dallo sporadico caso Englaro, ma, in maniera più robusta, afferma che la validità di un consenso preventivo a un trattamento sanitario è esclusa in assenza della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stesso, e, d’altro canto, l’efficacia di uno speculare dissenso “ex ante”, privo di qualsiasi informazione medico terapeutica “deve ritenersi altrettanto impredicabile sia in astratto che in concreto, qualora il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo pienamente” (Corte di cassazione 15 settembre 2008, n. 23676, dunque successiva alla decisione sul caso Englaro, datata 2007). Cosa che evidentemente non si può liberamente e consapevolmente fare prima del verificarsi del trauma e dell’informazione sulle ipotetiche terapie, sempre legate alla situazione contingente e allo stato fisiologico del paziente.
Si tratta di quelle che la giurisprudenza distingue tra situazioni di “giudizio”, scelte libere e consapevoli del paziente davanti al trauma e alle sue possibili cure, e situazioni di “precomprensione”, in cui si simula cosa avrebbe effettivamente voluto il paziente caduto in stato di incoscienza se avesse saputo di trovarsi davanti a un certo evento traumatico e a certe correlate terapie. Secondo questa giurisprudenza di legittimità, la prima situazione è legittima, mentre la seconda – in assenza di una legge sulle direttive anticipate di trattamento – non è percorribile e dunque non può obbligare i medici a dare seguito a scelte presunte del paziente in ordine a ipotetici rifiuti di cure.
In questi casi, dunque, prevalendo lo stato di necessità, davanti a un ricovero urgente per una vicenda traumatica, il medico deve intervenire. Ed è appunto questo il bilanciamento che l’ordinamento opera tra vita quale bene giuridico in sé e libertà di rifiutare le cure. Un ddl che si instrada su tale solco non può dunque definirsi in contraddizione con il dettato costituzionale, essendo piuttosto in piena armonia con quanto il sistema giuridico italiano già indica.
Non è vero, infine, che il ddl imponga autoritariamente l’obbligo all’alimentazione e alla idratazione forzate in spregio all’art. 32 della Costituzione. Come detto, infatti, è oggi del tutto legittimo, anzi doveroso, in caso d’urgenza attivare protocolli che prevedono il sostentamento parenterale. Una volta attivato, ove l’organismo di un paziente incosciente sia in grado di assorbire i liquidi vitali, l’interruzione del presidio altro non sarebbe che un modo per provocare la morte di un essere umano. Ciò è quanto avvenuto nella vicenda Englaro, il cui esito è stato però disegnato da una sentenza dei giudici e non da una scelta ordinamentale.
Si tratta ora di riconsegnare al Parlamento la prerogativa costituzionale di disciplinare una questione di forte impatto sociale, come le scelte di fine vita, disinnescando l’incedere di altre possibili decisioni giurisprudenziali di stampo creativo. Soluzione evidentemente avversata da chi non condivide la possibile scelta legislativa e auspica che a colmare il vuoto sia proprio la giurisprudenza, che assumerebbe così il ruolo improprio e non conforme alle funzioni costituzionali ad essa assegnata di dettare la disciplina di vicende sociali che postulano invece l’intervento del legislatore.
Del resto, per quanto la vulgata giuridico mediatica, rilanciata dall’appello di Repubblica e rafforzata dalle parole di Saviano, voglia far intendere il contrario, l’art 32 della Costituzione non si esprime affatto nel senso di un diritto assoluto all’interruzione della cura (dunque esprimibile ora per allora o, addirittura, per interposta persona), ma in modo assai diverso: “nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario”; il che appunto significa che a nessuno può essere imposto coattivamente un trattamento non richiesto, fuori evidentemente dai casi di urgenza. Di qui a dire che la legge sul fine vita deve garantire che “ognuno trovi la sua strada” davvero ce ne corre.
Come se il paziente avesse un diritto a chiedere una compartecipazione attiva di personale e strutture sanitarie ad attuare procedure autodeterministiche, che al dunque sarebbero anche eutanasiche. Del resto i Costituenti quando scrissero l’art. 32 avevano davanti agli occhi vaccinazioni e terapie sperimentali imposte dall’autorità pubblica e non certo il rapporto individuale medico-paziente, come vorrebbero far intendere i nuovi interpreti del dettato costituzionale.