Nell’udienza generale di ieri Papa Francesco ha avuto il coraggio di toccare una questione troppo spesso taciuta dentro il mondo cattolico: quella delle “ferite che si aprono proprio all’interno della convivenza famigliare”.
Al di là delle retoriche, la famiglia non è di per sé il luogo in cui i rapporti sono esenti dalle contraddizione che è tipica dell’umano e i suoi guai non derivano solo dagli attacchi esterni: può capitare che “nella famiglia stessa, ci si faccia del male”.
Riconoscere questa verità dell’esperienza è fondamentale per affrontare, fuori dalle sterili battaglie ideologiche, sia la crisi sia la straordinaria forza umanizzante che la famiglia, oggi più di sempre, può sprigionare. Proprio perché è un prezioso e delicato luogo di prossimità e intimità, la famiglia può fare tanto bene, ma anche tanto male. Anche quella “tradizionale” non è buona “d’ufficio”, come la relazione (altro termine attorno al quale le retoriche abbondano) non è buona in sé, dato che può essere di dominio, di violenza, di dipendenza…
Se vogliamo affrontare seriamente la questione della famiglia oggi, dobbiamo scendere dal piano astratto dei modelli, dismettere lo sguardo dall’alto e adottare piuttosto uno sguardo partecipe, da una posizione “accanto”. Come scriveva Bonhoeffer, “Chi ama il proprio sogno di comunione cristiana più della comunione cristiana effettiva, è destinato ad essere un elemento distruttore di ogni comunione cristiana, anche se è personalmente sincero, serio e pieno di abnegazione”. Lo stesso vale per quella forma di comunione che è la famiglia. Il Papa ci invita a guardare non il modello, ma la carne della famiglia, con delicatezza e tenerezza. “Carne” è una parola che non a caso ricorre molte volte nel testo dell’udienza. I modelli alla fine non esistono, esistono solo realtà incarnate. Persino il Dio in cui crediamo si è incarnato.
Per questo Papa Francesco ha scelto di adottare lo sguardo di Gesù (via, verità e vita) che va incontro, si pone accanto, coglie la singolarità di ogni situazione e persona. Si prende cura, e così guarisce (therapeuein).
La famiglia concreta, se vogliamo guardarla per quello che è, è anche un luogo dove ci si può anche fare male.
E perché ci si fa male? Perché è l’unico contesto dove l’alterità non può essere rimossa, dove dall’altro non ci si può disconnettere. Questo è difficile e faticoso, anche perché tutto il mondo va dall’altra parte e ormai siamo diseducati all’alterità. Eppure è oggi quasi solo in famiglia che si può imparare la “capacità di uscire da sé stessi verso l’altro. Senza di essa non si riconoscono le altre creature nel loro valore proprio, non interessa prendersi cura di qualcosa a vantaggio degli altri, manca la capacità di porsi dei limiti per evitare la sofferenza o il degrado di ciò che ci circonda” (Laudato si’ 208).
Quando in famiglia non si riesce a uscire da se stessi verso l’altro, quando ci lasciamo inzuppare dalla cultura iperindividualistica che ci circonda facciamo del male a noi stessi e agli altri.
E nessuno, da questa cultura, è veramente immune. Per questo la “ferita dell’altro”, come giustamente la chiama Luigino Bruni, non è un incidente, tantomeno un’eccezione, bensì è parte inevitabile e perciò costitutiva della storia di ogni famiglia: nella forma del trauma, del lutto, della delusione, del senso di fallimento educativo, dell’incomprensione, sempre più frequentemente del tradimento… E per questo il perdono è nutrimento indispensabile della vita familiare, ricordandoci che “Dio non abbandona mai” (Instrumentum laboris 113): egli è il padre misericordioso che ci attende sulla porta con le braccia aperte, e quando torniamo chiedendo perdono non ci rimprovera, ma fa cucinare il vitello grasso. “Dio per primo non si stanca mai di perdonare” (Evangelii Gaudium 3).
L’individualismo produce sempre conflitti di interessi. Ma il bene dell’uno che diventa il male dell’altro non può essere un bene. Il nostro “diritto alla felicità” non può costruirsi sul dolore altrui.
È troppo comodo dire che i figli soffrono di vedere genitori che non si amano più. Ormai, dice il Papa, ci siamo anestetizzati anche rispetto alle ferite della loro anima. “E sono ferite che lasciano il segno per tutta la vita”. Un bambino maltrattato sarà un adulto che maltratta, uno trattato con indifferenza avrà il cuore indurito per non sentire male. La cosa più terribile non è quella di spezzare i cuori, bensì quella di ridurli in pietra, scriveva Oscar Wilde.
“Parliamo molto di disturbi comportamentali, di salute psichica, di benessere del bambino, di ansia dei genitori e dei figli… Ma sappiamo ancora che cos’è una ferita dell’anima? (…) Quale peso ha nelle nostre scelte — scelte sbagliate, per esempio — quanto peso ha l’anima dei bambini?” —chiede il Papa. Sappiamo oltrepassarci verso di loro? Saremmo molto più felici se ci affidassimo a questo movimento.
Anche se la retorica dell’amore che finisce è spesso un alibi per non riconoscere la nostra incapacità a coltivarlo e alimentarlo: “ci sono casi in cui la separazione è inevitabile. A volte può diventare persino moralmente necessaria” ha detto ieri Papa Francesco: le violenze ripetute, gli abusi sono situazioni dalle quali i figli vanno preservati.
Ma in questi, come nei casi meno drammatici di fallimento, come accompagnare?
Le ferite della famiglia difficilmente può curarle la famiglia. Nella sua visione “ecologica” (tutto è connesso a tutto, “Nella famiglia, tutto è legato assieme”) il Papa si rende conto benissimo che la ferita della famiglia infetta l’intera società, che “l’esperienza del fallimento matrimoniale è sempre una sconfitta, per tutti” (IL 108) e che “Quando l’uomo e la donna sono diventati una sola carne, tutte le ferite e tutti gli abbandoni del papà e della mamma incidono nella carne viva dei figli” (udienza 24/6).
Per questo nell’Instrumentum laboris si auspica un percorso comunitario, invitando a coltivare una vera “arte dell’accompagnamento” (IL 109): “Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità” (EG 169). Accompagnando i primi e delicati anni della vita matrimoniale (IL 96-97), ma anche prendendosi cura delle famiglie ferite per “far sperimentare loro l’infinita misericordia di Dio” (IL 117) e aiutarle a chiedere e praticare il perdono: “La faticosa arte della ricomposizione della relazione necessita non solo del sostegno della grazia, ma anche della disponibilità a chiedere aiuto esterno. A questo proposito la comunità cristiana deve rivelarsi veramente pronta” (IL 105).
La vocazione della famiglia non è al nucleo-monade: così la famiglia salta. La vocazione della famiglia è all’accoglienza e alla missione: così la famiglia respira oltre se stessa, non implode, vive e “cura” questa società ferita, oltre che se stessa.
Se assume questa postura, la famiglia è preziosa risorsa per una autentica pedagogia comunitaria: “la comunità cristiana, soprattutto a livello locale, s’impegni a rafforzare lo stile di accoglienza che le è proprio. Attraverso la dinamica pastorale delle relazioni personali è possibile dare concretezza ad una sana pedagogia che, animata dalla grazia e in modo rispettoso, favorisca l’apertura graduale delle menti e dei cuori alla pienezza del piano di Dio. In questo ambito svolge un ruolo importante la famiglia cristiana che testimonia con la vita la verità del Vangelo” (IL 103).
Le famiglie solide possono sostenere quelle fragili, e la “famiglia di famiglie” che è la Chiesa si sta impegnando ad accompagnare questo cammino.
Cerchiamo di non sciupare questa occasione con sterili schermaglie dietro etichette ormai prive di senso, come quelle di “conservatori” e “progressisti”: ce l’ha detto Dio nel giardino dell’Eden, che custodire non è difendere, e che per custodire bisogna coltivare, ovvero far crescere prendendosi cura.