Martedi 4 ottobre, San Francesco, è mancato Jean Valenti, 93 anni, padre di Francesco e Annalena, due cari amici. Ma Jean Valenti per me rappresentava il fondatore dell’Associazione Italiana Sommelier (l’Ais), e con orgoglio portava con sé la tessera n. 1. Lo scorso anno a Golosaria ha presentato il suo libro (“Memorie di un vecchio sommelier”), scritto col nipote Ciacci, che non solo ripercorre la storia di una realtà dove ci siamo formati in tanti, ma soprattutto la storia di un uomo che ha creduto sempre nella speranza. Voglio riproporre qui la prefazione che scrissi per quel libro bellissimo, ricordandolo con tanto affetto, riconoscente per tutto ciò che mi ha insegnato.
Confesso che ho letto tutto d’un fiato questo libro. E subito dopo la lettura ho chiamato Annalena e Francesco, i figli di Jean, e Ciacci, il nipote che ne ha curato la stesura, per manifestargli tutto il mio stupore. Per qualcuno sarà banale, ma per chi per mestiere scrive, su giornali, libri ed ora anche sul web, il tempo da dedicare alla lettura è sempre di meno.
Quando viene chiesta una pre o una post fazione uno sfoglia il libro, ne coglie le parti salienti, poi butta giù un pensiero. Ecco con il libro di Jean Valenti questo non è accaduto, perché in queste righe è condensato esattamente ciò che l’etimologia della parola vite fa trasparire, cioè vita. E come la vite intreccia la vita delle persone in un processo di morte e di rinascita, anche la vita di Jean è la cifra di qualcosa di profondo che riguarda ciascuno di noi.
Forse è indicibile per qualcuno, ma quando ho letto le pagine sulla guerra e sul lager, sulle sorti della sua famiglia o sul caso che ha acceso la scintilla del vino in un giovane garzone, m’è venuta in mente la parola “grazia”. E grazie è proprio quello che Jean dice in ogni riga di questo libro, fino all’ultima, quella dei nostri giorni, dove ricorda i protagonisti dell’Ais di ieri e di oggi, ai quali è rimasto legato come ad una famiglia.
Anch’io mi sono trovato a far parte di questa famiglia, quando nel 1984 a Milano mi iscrissi al corso per diventare sommelier, che si teneva due sere la settimana alla terrazza Motta in Duomo sotto la regia del mio maestro, Luigi Gaviglio. Ho conosciuto Veronelli, che è il maestro di tutti noi che scriviamo di cibo e di vino; ho fatto in tempo a conoscere Franco Tommaso Marchi, detto “penna bianca” per i suoi capelli bianchi fluidi e Franco Colombani, che fu la mia prima tavola gourmet con la fidanzata.
Ed ho conosciuto anche Jean, che è sempre stato discreto, quasi in disparte, ma sempre di parte, ossia a favore dell’Ais e della conoscenza del vino. L’Ais che è come una mamma, un’educatrice che ti apre a un mondo. A me accadde così, quando per via di un tesi di laurea sul mercato del vino in Italia, decisi di capire meglio la materia. Mi ero ripromesso di fare solo il primo corso; ma come le pagine di questo libro che ti aprono a un mondo, alla fine li feci tutti e tre.
Oggi anche mio figlio Marco Giacomo è sommelier ed esercita questa professione. E questo mi ha fatto pensare ancora alla vite e alla vita, alla conoscenza che si trasmette e che continuamente ricrea professioni e modi di approcciarsi al vino. Mi ha molto colpito quando Jean fa un sunto di ciò che insegnava ai suoi allievi, dove c’era anche la conoscenza dei “vantaggi che offre il vino nell’alimentazione”. Ma mi ha colpito pure quando si commuove perché all’estero trova i vini della Valtellina, che gli ricordano la sua Palma, la moglie, oppure i vini della Sardegna nel ristorante del figlio in America. Ma si può ridurre il vino ad una semplice descrizione organolettica ? Può essere solo il veicolo edonistico ?
Leggete le pagine di questo libro: il vino è la metafora della vita. E’ il parto che distrugge una forma, l’uva, per diventare un’altra forma, il vino, che poi accompagna la vita per anni.
Sono grato a Jean per l’onore che qui rende a Giuseppe Vaccarini, a sua volta maestro di Marco Gatti e di altri miei compagni di strada. Sono grato per l’affetto che mostra ad Antonello Maietta, che con forza continua a tessere la tela dell’unità di un’associazione e che ha voluto questo libro, scritto in prima mano da un padre, il quale ad un certo punto fa un ammonimento essenziale: “In questo mestiere più importante di comandare è saper servire”.
“Se tornassi indietro farei il cameriere” disse una volta un grandissimo educatore che ci è caro, don Giussani – perché il cameriere, servendo, esercita la più concreta forma di carità”.
“Servire ma non essere servili”, spiegava da un altro capo di Milano l’amico di Jean, Angelo Zola, per il quale ebbi l’onore di scriverne la biografia “L’Angelo dello Shaker”.
L’Ais e l’Aibes nascevano nei medesimi anni, a Milano, in quel dopoguerra pieno di fermento e di potenzialità, dove la forza di questi uomini, Zola, Botti, Valenti, erano solo le relazioni. E subito relazioni a livello internazionale… e interpersonale. Oggi ci illudiamo che tutto passi da internet, oppure dai guru del momento e dalle degustazioni che spaccano il capello in quattro.
Non è così: tutto passa esattamente dallo stesso percorso di Jean Valenti, ossia dal rapporto fra persone, dalla conoscenza, dalla tensione a servire, perché servendo una cosa buona tu favorisci la partecipazione alla vita. E poiché nella chiosa finale c’è un cenno ad una vigna eterna, che fu anche motivo di dialogo con il maestro Gino Veronelli (lo fu per Jean e lo fu anche per me), io credo che un poco di questa eternità l’abbiamo intravista anche quaggiù. E magari proprio nell’immensità di un bicchiere di vino che sa di viole e di ciliegie e che fa dei racconti. Racconta la nostra origine: da dove veniamo e per cosa siamo stati creati. Racconta la vite che richiama la vita.
E fu proprio Veronelli che nel suo conflitto interiore arrivò a scrivere un giorno che “La vigna è il canto della terra verso il cielo”. Grazie Jean, allora, per questa storia che ci hai rappresentato. Grazie per quegli sguardi di eternità che, da servitore, nel racconto della tua vita, ci hai fatto gustare.