Notizie tragiche ci arrivano dalla Tunisia e dalla Francia. Con l’aggravante che la comprensione di questi fatti sta diventando sempre più difficile perché non esiste più un “quadro” in cui inserirli. Non c’è più la guerra fredda, ma non c’è più nemmeno quella fase post-guerra fredda che Samuel P. Huntington chiamò “scontro di civiltà”. Le guerre non avvengono più sui confini tra civiltà, ma piuttosto al loro interno.
Resta la morte: uomini innocenti continuano a cadere come frutti guasti da un albero scosso dal vento, ma da dove venga il vento non si sa, ci sono soltanto ipotesi.
Il cosiddetto stato islamico o Isis incita al terrorismo, ma l’impressione è che non si tratti tanto di una centrale organizzativa quanto di una specie — mi si passi il termine — di polo culturale.
Personalmente, non so nemmeno se Isis abbia qualcosa di islamico oppure no, chi la finanzi (l’elenco dei cui prodest è lungo e non esclude nemmeno gli Usa, da sempre generatori di destabilizzazione) e quali siano i suoi scopi reali. Io non credo a una sola delle loro parole: però le parole hanno spesso un effetto a prescindere che chi le pronuncia ci creda o no, e tante volte il non credere aiuta parecchio.
Piuttosto, voglio ricordare che l’uomo islamico è il più individualista che ci sia. Non è generoso, non è di larghe vedute, non abbraccia una strategia condivisa: la jihad è per lui una questione strettamente personale, egli intende salvare innanzitutto sé stesso. Lo notava già, con eccessivo disprezzo, Oriana Fallaci: sono vanitosi, diceva, si pettinano prima di schiantarsi…
Il terrorismo italiano degli anni Settanta era (o comunque si pensava) organizzato, obbediva a una o forse più centrali direttive: il combattente proletario uccideva e talora moriva per la causa, in nome del proletariato. Anche il terrorista islamico combatte per il trionfo dell’Islam, ma non lo fa con gli altri, non ha compagni di avventura, si getta da solo contro il nemico per salvarsi da solo, anche se sbandiera il vessillo dell’Isis.
Non è un caso che al-Qaeda — più simile a un’organizzazione terroristica di vecchio stampo — sia stata soppiantata dal nuovo stato islamico. Ma lo stato islamico non consiste innanzitutto nella propria strategia. Si parla molto di strategia dell’Isis, ma secondo me la sua forza non sta nel suo disegno.
La sua forza sta nel vuoto che incontra davanti a sé. E non mi riferisco prima di tutto al vuoto umano, alla mancanza di ideali o di fedi (che in realtà non mancano): non parlo del nostro cinismo, del relativismo o del vizio ideologico.
Il vuoto di cui parlo è qualcosa che sta divorando il mondo — o quantomeno il mondo così come lo conosciamo oggi — dall’interno. Lo vediamo per esempio nella crisi profonda in cui versano le classi dirigenti pressoché di tutti i paesi europei (non solo l’Italia, dunque), segno che il “paese” come tale è un’entità sempre più incapace di pensare sé stessa. Lo stesso vale per l’Ue. Tutte cose che, nella percezione comune, servono soprattutto a complicare la vita dei cittadini, anche se non è vero.
Le città pensano sé stesse sempre più in termini di città-stato, Milano è sempre più distante da Roma, Parigi da Marsiglia, Madrid da Barcellona, e così via. Questo potrà diventare un moltiplicatore di forza, ma è anche un moltiplicatore d’insicurezza. I punti d’attacco sono sempre più numerosi e sempre più impossibili da controllare.
Lo scriveva già nel 2004 William Langewiesche nel suo mirabile The Outlow Sea (tr. it. Terrore dal mare, Adelphi 2005). Lo scatenarsi di una guerra globale, scriveva Langewiesche, è tecnicamente inevitabile.
Cosa la può fermare?, mi chiedo allora. Io non ho dubbi: una rivoluzione culturale. E’ necessario ricostruire il nesso, ontologico prima che etico, tra ciò che siamo e ciò che facciamo, perché questo nesso è andato perduto. E’ necessario che ciò che un uomo fa torni a essere l’espressione di quello che egli è. Senza riempire questo vuoto, è inevitabile che crescano le emorragie umane verso avventure folli.
La ricostituzione di tale nesso è il compito politico più urgente nella nostra civiltà, ed è anche il punto dove essa rischia di capitolare. Ma non è più dalle classi politiche — confuse come tutto il resto — che dobbiamo aspettarci risposte, bensì da quelli che qualcuno chiamò, profeticamente, i “nuovi monasteri”: essi esistono già, non dobbiamo inventarli.
Abbiamo bisogno insomma di un nuovo ora et labora, che resta la più geniale sintesi antropologica della nostra civiltà. Senza affrontare questo nodo, temo che la lista dei morti e di coloro che vengono abbandonati al loro destino sia destinata ad allungarsi.