Un’apertura di giornale, su tutte le testate più importanti, quando arrivò la notizia-bomba degli arresti, ed era il 23 febbraio del 2010; poi giorni e giorni di titoli sull’inchiesta, stampati in prima pagina e con amplissimi sviluppi interni. L’“affaire” Fastweb che tre anni e mezzo fa condusse all’arresto di Silvio Scaglia – il manager-imprenditore che ha “inventato” la prima società specializzata nella fibra ottica in Italia – e un’altra ottantina di persone ha tenuto banco per settimane. Persino un magistrato equilibrato e prudente come l’attuale presidente del Senato Pietro Grasso, all’epoca capo dell’antimafia, la definì una pietra miliare nella lotta alla delinquenza organizzata degli affari.
Si sa com’è finita. Innanzitutto, il principale imputato, appunto Scaglia, è stato assolto in appello da ogni accusa, con altri sei coimputati, tutti severamente condannati in primo grado; e anche i condannati, diciotto – quindi una modesta frazione degli indagati – hanno subito pene relativamente ridotte e per reati ridimensionati rispetto a quelli originariamente ipotizzati. I giornali di oggi, e certo anche quelli di domani, hanno raccontato e dettaglieranno le dinamiche del processo, ma non c’è dubbio che le leggi del mercato dell’informazione faranno presto a eliminare dalle pagine dei quotidiani – come dai telegiornali, dai gr e dai siti – la “buona notizia” delle assoluzioni. E comunque, in questo momento, su Google si trovano 159 mila risultati cercando “Scaglia condannato” e meno di un terzo cercando “Scaglia assolto”…
Il peso reputazionale delle accuse, e in questo caso anche degli arresti, rimarrà insomma incommensurabilmente maggiore di quello delle notizie sulle assoluzioni. Un danno inestimabile per chiunque, dal signor Rossi – che viene guardato in tralice dai vicini di casi e dal droghiere – a chi, a maggior ragione, ha pubblica notorietà, responsabilità sociali come le ha anche un imprenditore, ed è insomma un volto noto a molti. Una prova l’abbiamo anche avuta dalla vicenda di Tonino Saladino: un’inchiesta che ha portato persino alla caduta di un Governo e un calvario personale durato sette anni, fino all’assoluzione in Cassazione perché il reato non sussiste. Mai in prigione, ma nel frattempo lavoro azzerato, sofferenza e problemi anche per i famigliari, amici spariti. Chi potrà mai riparare questo genere di danni reputazionali?
Già in Italia è rimasto scandalosamente senza seguito per 25 anni (e tuttora) il referendum con cui la maggioranza chiese l’istituzione di una legge efficiente sulla responsabilità civile dei magistrati che sbagliano. Ma comunque il problema della reputazione di chi è colpito da un errore giudiziario non era mai stato toccato, neanche in occasione di quel dibattito. E la carsica rissa su come “farla pagare” ai pm che inquisiscono senza ragione o ai tribunali che sbagliano si riduce a una polemica sterile sulle punizioni da infliggere ai giudici pasticcioni, come se una loro punizione – peraltro, nella storia della magistratura italiana, rarissima – potesse in sé e per sé risarcire i danneggiati e come se rilevasse qualcosa, per i danneggiati, il fatto che un errore giudiziario nasca dal dolo (perché solo il dolo giustifica la punizione del magistrato) o non semplicemente da una colpa o da un’incapacità o da un abbaglio in buona fede.
Quale che sia la causa dell’errore del giudice, l’importante è risarcire il danno prodotto, e questo tocca comunque allo Stato e non può certo essere un onere della persona fisica della “toga” incapace. Dunque, sia sul piano dei danni civili che su quello della reputazione sarebbe giusto che lo Stato indennizzasse gli incolpevoli danneggiati. Come?
In due modi. Quanto ai danni civili, seguendo un iter accelerato di quantificazione degli stessi, in sede giudiziaria come per qualunque altro danno, ma con una procedura accelerata; quanto alla reputazione, la strada maestra sarebbe quella di addossare allo Stato le spese necessarie a far uscire sui giornali (e sugli altri media) una campagna di riabilitazione degli imputati dimostratisi innocenti pari, per visibilità quali-quantitativa, alle notizie negative precedentemente comparse. Perché non è pensabile che i giornali, di per sé, decidano di dare a una “buona notizia” lo stesso risalto che avevano dato a quella cattiva, avendo in quel caso esercitato legittimamente il loro dovere di cronaca (e non dato seguito a voci incontrollate!). Ma non è giusto che l’onore leso di un innocente, sommerso dalla vergogna delle decine e decine di titoli diffamatori, non sia comunque ripristinato.
Silvio Scaglia è stato un eroe negativo per gran parte dell’opinione pubblica, perché l’Italia è un Paese che non perdona il successo e lui ne ha avuto tanto, sia professionale che economico. Potrebbe ora provar gusto nel promuovere una grande campagna contro la carcerazione preventiva immotivata, di cui è stato vittima, e per il risarcimento reputazionale della diffamazione a mezzo giudiziario che i media veicolano, pur nel loro pieno diritto di farlo quando nasce dagli errori dei giudici. C’è da scommettere che lo farà. Ma sarebbe bene se qualcuna, tra le tante forze politiche indignate (a chiacchiere) sia per l’obbrobrio della carcerazione preventiva, che per l’onta delle diffamazioni non sanate, ne facesse una propria battaglia di civiltà.