Un uomo gravemente depresso decide di togliersi la vita, andando in Svizzera in una di quelle cliniche della morte che fanno capo alla Associazione Exit e che fin dai primi anni quaranta offrono alle persone che ne fanno richiesta la possibilità di ricorrere al suicidio assistito.
Tra i criteri previsti dalla Associazione Exit per accogliere una richiesta così drammatica, ce n’è uno particolarmente importante: il paziente deve presentare una patologia in fase avanzata, grave, incurabile ed irreversibile. Ma non questo è il caso di Lucio Magri, giornalista e politico noto per la libertà di spirito con cui ha sempre manifestato il suo pensiero, scegliendo spesso il dissenso anche rispetto al partito comunista, di cui ha attraversato tutte le diverse fasi di trasformazione.
Ma Lucio Magri non soffriva di una malattia progressiva, incurabile e irreversibile. Era però gravemente depresso, in parte perché recentemente aveva perso la moglie, a cui era molto legato e che aveva assistito fino all’ultimo momento, e in parte perché sembrava aver perso interesse per il suo lavoro e per il dibattito politico, che lo aveva sempre appassionato.
Tutti gli amici affermano di aver cercato di convincerlo, provando a fargli cambiare idea, mostrandogli il loro affetto, senza riuscirci, ma senza aver paura di provare a forzare la sua volontà. E’ la dinamica del rapporto tra amici per cui ci si mette in gioco con la insistente semplicità che suggerisce proprio la stima e l’affetto.
Non ci sono teorie ne astratte difese di principio del diritto a morire, quando e come si vuole, c’è piuttosto la sollecitudine di chi desidera attenuare il senso di solitudine dell’amico e apre con lui un dialogo in cui possono alternarsi toni suadenti e toni più aspri, con l’unico obiettivo di convincerlo a recedere dalla sua posizione. E di fatto Magri è andato più volte in Svizzera, decidendo subito dopo di tornare indietro. Difficile immaginare cosa pensasse, ma certamente non appariva del tutto convinto né determinato a porre fine alla sua vita. Ma poi l’altro giorno le cose sono andate diversamente e nonostante la solidarietà degli amici è prevalsa la volontà di morte.
In questa vicenda triste e amara ci sono però tre considerazioni fondamentali che occorre porsi, assumendo tre prospettive diverse, ma convergenti nell’illuminare il senso e il peso di questo gesto.
La prima riguarda la depressione come malattia: il DSM IV (“Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali” ndr) tra i suoi sintomi fondamentali registra proprio il senso di solitudine e di abbandono, il desiderio di morte, il timore di non essere all’altezza della situazione e di non poter fronteggiare le difficoltà della propria vita. Ci sono forme diverse di depressione e tra le più diffuse ci sono quelle che seguono a un grave lutto, o che si accompagnano a una perdita di autostima, legata a difficoltà economiche e professionali, oppure rivelano una pesante delusione.
Ma i sintomi di una malattia più che di libertà del soggetto ce ne rivelano la fragilità; l’oggettiva difficoltà a fronteggiare certe situazioni non può essere confusa con la motivazione a por fine alla vita stessa. E’ piuttosto una richiesta di aiuto che coinvolge gli amici, ma anche e soprattutto quei medici, professionisti esperti, abituati a trattare patologie complesse come la depressione. Una patologia che richiede interventi di natura farmacologica, psico-terapeutica, individuale e di gruppo, e non di rado anche socio-terapeutica.
La seconda riguarda l’enfasi mediatica con cui qualcuno ha voluto sottolineare nella scelta di Magri esclusivamente il gesto di libertà e di autodeterminazione, sottacendone le difficoltà personali, per criticare l’assetto legislativo italiano che all’articolo 580 del CP condanna l’istigazione e l’assistenza al suicidio. C’è un impegno esasperato ad esaltare una libertà di morte mettendo sotto accusa un sistema di valori che connotano profondamente cultura e tradizione italiana. Un’enfasi che corre il rischio di far assurgere a modelli di co9mportamneto quelli che non sono altro che drammatiche scelte personali, per cui si pruò provare rispetto e misericordia, anche quando non se ne condividono le ragioni e non si riesce ad includere in una valutazione positiva.
La mia critica va proprio verso chi approfitta per fare promozione dell’eutanasia ogni volta che la tragedia personale di un uomo diventa di pubblico dominio e svela la sua sofferenza, il suo disagio. Invece di promuovere una risposta positiva da parte delle istituzioni sollecitandole a farsi carico dei bisogni fisici e psicologici delle persone, potenziando in termini qualitativi e quantitativi la rete delle cure palliative con interventi che contribuiscano a ridare speranza alle persone ferite.
Terzo motivo, non meno importante, riguarda la riflessione sul modello antropologico che presidia molte delle scelte che si stanno imponendo sul piano sociale e culturale, politico e giuridico. Non è possibile accontentarsi di un modello che abbia una impronta fortemente individualistica e rinunzi a ragionare sulla dimensione relazionale della vita umana. È fondamentale che si torni a ragionare sull’uomo come soggetto di relazioni irrinunciabili proprio per consentirgli il pieno raggiungimento dei suoi fini, sula piano affettivo, professionale, sociale.
La solitudine, tanto necessaria ad ognuno di noi per riflettere sulla propria vita e sul contesto in cui viviamo, per riappropriarci della nostra libertà smascherando i condizionamenti che ne limitano l’espressione, ha ragione di essere proprio perché l’uomo vive abitualmente al centro di un sistema di relazioni, di affetti e di responsabilità. L’uomo nasce in famiglia e si proietta nel far famiglia, perché da solo non è in grado di dare la vita né tanto meno di riceverla, lavora con gli altri e lavora per gli altri, nel desiderio di sentirsi utile mettendo in gioco i propri talenti, partecipa della vita di chi gli sta accanto cercando di interagire positivamente con loro. In altri termini è fatto dagli altri e per gli altri. E nelle sue decisioni non può non tenere conto della ricaduta che queste hanno nella vita degli altri, secondo una logica che ci vede tutti parte di un sistema intensamente caratterizzato da un’etica della responsabilità che si realizza della cura reciproca.
Lucio Magri continua a trasmettere idee, sensazioni, resta in dialogo con tutti noi, come è avvenuto in questi giorni, ciò che ha detto, ciò che ha scritto e ciò che ha pensato sono nella nostra memoria, stimolano la nostra riflessione, per cui nel pieno rispetto delle sue scelte, è doveroso manifestare la ricaduta che hanno in tutti noi, anche per evitare che diventi esemplare e generalizzabile, ciò che resta dramma personale e storia individuale. Al di là delle possibili strumentalizzazioni politiche e culturali.