Un padre condannato per aver dato uno schiaffo al figlio: messa così la notizia è destinata a suscitare quanto meno fondate perplessità, se non più indignate reazioni. L’ennesimo attentato all’autorità della famiglia, un’indebita intromissione nel rapporto tra genitori e figli, un buonismo che ignora il dramma educativo, un’ideologica affermazione di uno stile pedagogico non violento che non è un condiviso dalla generalità della società italiana… Ci può stare tutto. Ma la notizia di cronaca, per quanto scarna, fornisce anche qualche dettaglio, che aiuta a contestualizzare la vicenda e a comprenderne meglio gli estremi.
Il figlio è un bambino di sei anni, che non voleva leggere; lo schiaffo paterno gli ha lasciato sulla guancia un segno che era apprezzabile ore dopo, quando la madre, assente al momento del fatto, è tornata a casa; il clima della famiglia e il rapporto tra i coniugi non dovevano essere dei più sereni, se la madre ha immediatamente chiesto l’intervento dei carabinieri. Più che il fatto in sé – uno schiaffo dato a un figlio -, allora, sembrano rilevanti le circostanze, ed in particolare la decisa violenza del gesto e la non gravità del comportamento che si voleva sanzionare: sono ben pochi i bambini di sei anni che leggono senza fare resistenza! In effetti il giudice ha ritenuto sussistente il reato di “abuso di mezzi di correzione”, ossia l’aver usato un mezzo di correzione, come tale in sé legittimo, ma di averlo fatto in modo scorretto, sproporzionato rispetto alla esigenza educativa che era emersa.
E’ in effetti compito dei genitori vincere la resistenza del figlio riottoso che non vuole leggere, e così aiutarne la crescita: e tale risultato va perseguito con le modalità più varie che il genitore ritiene utili, momento per momento, aderendo alle situazioni e ai rapporti che mutano di continuo. Ragionamenti, blandizie, promesse, premi, sgridate, punizioni (“Niente TV! ”..): lo strumentario di un genitore è sempre ampio. Non è programmaticamente esclusa neppure la punizione fisica di per sé (lo scappellotto..); ma non può, non deve sconfinare mai nella violenza gratuita o nell’umiliazione fisica o morale.
La posizione di maggior forza e autorevolezza che una genitore ha rispetto al figlio deve essere usata come strumento per educare, per aiutare la crescita, e non come affermazione di sé a detrimento dell’altro.
E questo vale non solo per le punizioni fisiche: ci sono frasi spezzanti, giudizi derisori, comportamenti indifferenti che feriscono molto più dello schiaffo a pieno viso, e fanno molto più danno, anche se nessuno li denuncerà mai come abuso di mezzi di correzione. Il fatto è che per educare un figlio bisogna saper distinguere la reattività personale dalla funzione educativa; in ultima analisi, bisogna educare se stessi.